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mercoledì 30 gennaio 2019

La propaganda «anti-sette» è stata pensata per nascondere la cattiva reputazione degli psicologi?

Secondo un sondaggio diffuso in Ottobre del 2017, il 70% degli italiani considera inutile andare dallo psicologo. Un dato, questo, alquanto sbalorditivo se si considera che la professione di psicologo è una realtà consolidata e ratificata dallo Stato italiano da trent’anni ormai, con l’istituzione dell’Ordine di riferimento grazie all’iniziativa parlamentare del senatore Adriano Ossicini, il quale seppe conseguire un ambizioso obiettivo malgrado le molte polemiche e dopo quindici anni di battaglie e di contestazioni ricevute persino dai suoi colleghi.

Nondimeno, si sa che nei confronti della categoria gli italiani sono sempre stati piuttosto diffidenti o, comunque, poco orientati a ricorrere alle loro proposte. Le ragioni di tale forma mentis non sono state ancora spiegate esaurientemente, ma si potrebbe ipotizzare che la popolazione dello Stivale ha ancora una prevalenza di cultura popolare che conferisce una generale tendenza verso soluzioni di senso comune o verso prassi etnicamente consolidate ritenute prevalentemente valide e pertanto difficilmente messe in discussione.

In quest’ottica, si potrebbe comprendere come mai la legge Ossicini promulgata nel febbraio del 1989 sia stata vista dagli italiani come una sorta di imposizione di un’istituzione non particolarmente richiesta né desiderabile. Di certo, se a tutt’oggi oltre tre quinti della popolazione non desiderano o non ritengono di alcuna utilità farsi visitare da uno psicologo, a quel tempo forse nemmeno conoscevano l’esistenza della figura dello «strizzacervelli» o potevano averne sentito parlare a mo’ di «americanata» (come usava dire a quel tempo).

Non a caso riscosse enorme popolarità un film di Hollywood proprio con quel titolo, «Lo strizzacervelli» (1988) con Dan Aykroyd e Walter Matthau, per non parlare degli innumerevoli tentativi fallimentari di curare il commissario Dreyfus nell’esilarante serie dell’ispettore Clouseau («La Pantera Rosa»), acclamatissima in Italia per tutti gli anni ’70 e ’80 ed oltre.


Nei sei lustri che ci separano da allora, malgrado qua e si notino ancora un po’ di sfiducia e di cautela, non si può certo dire che lo scenario non sia mutato per il meglio.

Stando alle statistiche dell’Ente Nazionale di Previdenza ed Assistenza della categoria (ENPAP), al 31 dicembre 2016 vi erano in Italia fra i cinquanta e i sessantamila psicologi. In questo articolo si legge che nel nostro paese sono attivi 156 (centocinquantasei) psicologi ogni centomila abitanti, solo ottanta dei quali però ritenuti effettivamente praticanti perché iscritti al sindacato. Comunque, anche escludendo i non tesserati, la cifra rimane elevata se paragonata alla Francia in cui i praticanti sarebbero ottantaquattro ogni centomila abitanti oppure alla Germania in cui se ne conterebbero centonove.

Sempre secondo l’ENPAP, soltanto un terzo degli psicologi attivi raggiungerebbe i ventimila Euro annui o poco meno, mentre più di quindicimila psicologi non raggiungono i cinquemila Euro annui. Cifre, queste, che sembrerebbero collimare con il dato della domanda «di mercato» carente. Tant’è che, malgrado l’abbondanza numerica, il totale delle prestazioni erogate sarebbe molto inferiore rispetto (ad esempio) alla Francia, dove ben il 33% della popolazione si è rivolto almeno una volta ad uno psicologo per ricevere assistenza.

Infatti, secondo Avvenire sui cinquantacinquemila psicologi attivi, migliaia sono gli immatricolati ai corsi di laurea, ma solo uno su quattro
eserciterà realmente la professione; eppure: «i corsi di laurea in Psicologia negli ultimi 20 anni si sono moltiplicati, resta un'aspettativa molto elevata di laurearsi e poi esercitare la professione di psicologo, ma in realtà, i dati statistici in nostro possesso ci dicono che solo un laureato ogni 4 si avvierà alla professione di psicologo».

Il problema della reputazione, però resta sempre attuale. Infatti, benché (sempre stando al succitato articolo di Avvenire, e quindi alle dichiarazioni del vicepresidente ENPAP), il fatturato annuo della categoria sia in crescita, ciò nonostante persino i loro portavoce sentono ancora la necessità di intervenire sulla percezione della figura professionale dello psicologo da parte della popolazione generale: «Abbiamo svolto una ricerca di mercato nel 2015 rilevando con diverse metodologie il sentiment di circa 1000 fra cittadini e opinion leader, ne emerge un orientamento positivo». Sfortunatamente, l’indagine che ha decretato il dato (riferito all’inizio di questo post) del 70% degli italiani poco inclini a rivolgersi a uno psicologo è successivo a queste dichiarazioni, che i più puntigliosi detrattori non mancherebbero di definire generiche o scarsamente dettagliate.

Ma veniamo ora alla relazione perlomeno concettuale fra la becera propaganda «anti-sette» e la cattiva reputazione di cui risente la categoria degli psicologi.

Nel già citato articolo di «thevision.com» (curiosamente condiviso, qualche settimana fa, proprio dalla psicologa Lorita Tinelli), si legge: «Se in Italia una percentuale così estesa di persone considera lo psicologo alla stregua di un ciarlatano che intende soltanto rubare i soldi ad alcuni disperati creduloni in difficoltà, è perché domina un’ignoranza diffusa sul mondo della psicologia e della psicanalisi che nutre una forte presunzione di base, figlia di tutti i pregiudizi».

È quasi sorprendente rilevare come questi concetti sfavoreli, facenti parte della comune considerazione della gente rispetto agli psicologi, siano quasi sovrapponibili alle accuse rivolte proprio dagli esponenti «anti-sette» nei confronti dei nuovi movimenti religiosi!

In particolar modo – fatto che, di per sé, ha davvero dello sbalorditivo – sono proprio certi psicologi facenti parte del fronte militante contro i presunti «culti distruttivi» o «abusanti» a formulare direttamente o anche a sostenere indirettamente gli attacchi nei confronti di gruppi religiosi o para-religiosi «alternativi» (il nostro blog gronda delle dimostrazioni di astio e di ostilità da parte di costoro ai danni di congregazioni tutto sommato pacifiche e il più delle volte impegnate in attività benefiche).

Ci si domanda se questo manipolo di psicologi estremisti come Lorita Tinelli (referente della SAS o «Squadra Anti-Sette» del Ministero dell’Interno) e Luigi Corvaglia (membro del direttivo della controversa organizzazione europea FECRIS), Anna Maria Giannini (amicissima di don Aldo Buonaiuto e con lui fra i relatori dell’inquietante convegno di Roma del 9 novembre scorso), Elena Melis del GRIS di Rimini, Davide Baventore in Lombardia, Martina Poggioni (in quota AIVS) in Toscana e qualche altro sparso qua e là sul territorio, non finiscano per contribuire inavvertitamente a gettare discredito sulla categoria.

Soffrendo un cospicuo affollamento di colleghi (e quindi un’inevitabile concorrenza) e dovendo pure loro sbarcare il lunario, in un mercato difficilissimo (come è quello del benessere e della salute) anche perché subissato da una miriade di proposte (si pensi solo alla feroce polemica, tuttora rovente, contro i «counselor»), nella costante necessità di procurarsi del lavoro che a volte stenta ad arrivare, sembra che certi «strizzacervelli» preferiscano accanirsi non solo contro «life coach» e simili, ma anche contro leader religiosi, guru e figure di tutt’altro genere (e che in qualche caso non hanno proprio nulla a che vedere con loro: eclatante l’esempio di «Un Punto Macrobiotico») e mettere in moto una vera e propria macchina del fango ai danni di figure rappresentative o di interi movimenti.

Una tattica atavica, descritta già fra il I e il II secolo d.C. allorché Plutarco raccontava di come un adulatore di Alessandro Magno di nome Medio «raccomandava di attaccare e mordere senza paura con calunnie sostenendo che, se anche la vittima fosse riuscita a sanare la ferita, sarebbe comunque rimasta la cicatrice».

Insomma, certi intransigenti ed intolleranti critici di presunte «sette religiose» (le quali, il più delle volte, si rivelano aggregati di persone normalissime che cercano faticosamente di professare un proprio credo o di seguire una filosofia comune) cercano di spostare la diffidenza incrostatasi nei confronti della loro categoria appioppandola ad altri.

Un discorso simile si potrebbe senz’altro fare per una figura come il già citato don Aldo Buonaiuto, prete cattolico dall’operato palesemente inquisitorio le cui vicende giudiziarie del passato sono scomparse da Internet. Ma di questo abbiamo già parlato e ci si potrà nuovamente occupare in altro post.

Tornando invece agli psicologi ed alla mordace, roboante campagna mediatica di un’infinitesima percentuale di loro contro la spiritualità alternativa, il vero quesito che rimane ad ora irrisolto è: giova davvero tutto questo odio?

lunedì 21 gennaio 2019

Michele Nardi, magistrato «anti-sette», sotto accusa per corruzione

Abbiamo appreso dai media nazionali nei giorni scorsi che Michele Nardi, magistrato pavese di 52 anni di ruolo a Roma dal 2012, è stato arrestato (assieme al giudice Antonio Savasta) nell’ambito di un’inchiesta condotta dal tribunale di Lecce perché – secondo l’accusa – si sarebbe accaparrato denaro e benefici personali «millantando credito presso i giudici del Tribunale di Trani»; fra le altre cose, si sarebbe fatto consegnare «quale prezzo della propria mediazione con il pretesto di dover comprare il favore dei giudici» vari vantaggi fra cui «un viaggio a Dubai del valore di 10mila euro», la ristrutturazione di un suo immobile a Roma «per un importo pari a circa 120-130mila Euro (…), un Rolex Daytona (…) costato 34mila 500 euro» oltre a «due diamanti ciascuno del valore di 27mila euro». Infine, «secondo le indagini il pm [Nardi] avrebbe tentato di farsi consegnare complessivi due milioni di Euro».

Va precisato che l’indagine è in pieno svolgimento e, malgrado l’arresto a scopo cautelare, va sottolineato che Nardi potrebbe venire scagionato e va quindi ritenuto innocente fino a prova contraria per questa recentissima serie di accuse che gli vengono rivolte. Diverso invece il discorso circa l’imputazione di calunnia per la quale, in maggio 2016, era stato condannato a Catanzaro.

Tuttavia, mentre attendiamo che gli sviluppi dell’inchiesta attuale facciano luce sulla vicenda ed accertino la verità dei fatti, ricordiamo quale è stato sin qui l’apporto di Michele Nardi alla campagna ideologica dei militanti contro i nuovi movimenti religiosi in favore del ripristino del reato di plagio, al fianco di personaggi controversi come don Aldo Buonaiuto.

Tale campagna, come è ampiamente documentato nel nostro blog, mira a instillare nella società un allarmismo generalizzato a proposito di presunte «sette religiose» che si nasconderebbero dietro l’angolo pronte ad ogni sorta di agguato e rappresenterebbero un pericolo per l’intero paese:


Questo intervento è tratto dalla puntata del 28 aprile 2012 della trasmissione «Vade Retro» di David Murgia che va in onda sull’emittente cattolica «TV 2000». Qui vediamo Michele Nardi proprio accanto al prete inquisitore:


Michele Nardi, già sostituto procuratore a Roma, è infatti personaggio largamente apprezzato dagli «anti-sette» che spesso lo hanno invitato ai loro convegni e presentato come «grande magistrato» ed illustre rappresentante delle istituzioni.

Qui un post dell’avvocatessa Giovanna Balestrino del GRIS datato 20 maggio 2017 che esemplifica bene tale nostro asserto:


Sorvolando sul veniale «dà» senza accento, focalizziamo invece certe dichiarazioni ricorrenti da parte del pubblico ministero Nardi in occasione di conferenze e incontri «anti-sette».

Il sodalizio contro i nuovi movimenti religiosi è forte in particolare con il GRIS. Qui la partecipazione ad un convegno regionale nel novembre del 2012 a dare manforte a Giuseppe Bisetto e allo stesso David Murgia già citato prima:


Spicca fra i concetti veicolati la linea di supporto al ripristino del «reato di plagio» (alias «manipolazione mentale»), un tamburo che gli «anti-sette» non smettono mai di battere. Si osservi a tal proposito questa frase, riportata dai media a margine del corso «Esorcismo e preghiera di liberazione» organizzato proprio dal GRIS presso l’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum di Roma:

La manipolazione mentale è un’attività complessa che tende ad azzerare il libero arbitrio della persona, per sottometterla alle volontà dei capi.


Dichiarazioni, queste, che si sovrappongono specularmente ad altri interventi di Michele Nardi, come questo desunto dalla medesima trasmissione di «TV 2000» citata prima:


Ciò che balza particolarmente all’occhio è la somiglianza fra queste accuse, genericamente rivolte dal magistrato a delle non meglio precisate «sette», e le imputazioni che oggidì gli stanno venendo rivolte dal giudice per le indagini preliminari di Lecce, che così l’ha definito:

Una persona senza scrupoli che utilizza il lavoro di magistrato (e i rapporti che ne derivano) per spremere quante più utilità possibili; è sconcertante, tenuto conto che si tratta di un magistrato, come per lui sia normale millantare di poter “accomodare” i processi.

E ancora:

una personalità spregiudicata e pericolosa (...) capace di creare documenti falsi per inquinare le prove

Impossibile non rimanere un po’ interdetti mettendo a paragone tale grave valutazione, espressa dal magistrato di Lecce a carico del suo collega in forza a Roma, con il giudizio parimenti severo formulato dal teleschermo proprio da Nardi nei confronti delle ipotetiche «sette» o del «maligno»:


Tornando poi al filone calabrese dell’indagine, si apprende dalla stampa che sono sotto la lente d’ingrandimento  addirittura i possibili legami fra Michele Nardi e la massoneria!

(…) risulta documentato il tentativo di Nardi di contattare il giudice del processo al fine di ottenere la positiva definizione della sua vicenda processuale facendo ricorso a conoscenze attive in ambito massonico, ambiente di cui egli stesso fa parte

Sbalorditivo: è proprio quel genere di ambiente che il GRIS, a suon di convegni e pubblicazioni uno dopo l’altra, ha fatto bersaglio dei più inflessibili anatemi, come ci ricorda la succitata Giovanna Balestrino nel maggio di due anni fa:


O come si può constatare dalla seguente locandina di quello stesso periodo (maggio 2017) che annuncia una conferenza in provincia di Agrigento:


Attendiamo fiduciosi che la giustizia (umana e divina) faccia il proprio corso.

sabato 15 dicembre 2018

Reazioni degli «anti-sette» alla verità: gli sfoghi di Lorita Tinelli e le eterne contraddizioni

di Mario Casini

In uno degli ultimi post di questo blog, è stata svelata la genesi dell’estremismo «anti-sette» espresso a ogni piè sospinto da Lorita Tinelli nei suoi frequenti interventi pubblici sui mass media in qualità di consulente della «polizia religiosa» SAS (la «Squadra Anti-Sette» del Ministero dell’Interno) ed esponente del CeSAP, sigla italiana corrispondente della controversa associazione europea FECRIS.

Mi aspettavo una delle sue (consuete) reazioni scomposte, e infatti non ho dovuto attendere per rilevare un suo (tipico) commento piccato e inviperito con offese vaghe e accuse nei miei riguardi né fondate né circostanziate (che lasciano il tempo che trovano). È qualcosa a cui ho fatto l’abitudine, essendo oramai oltre un anno da che amministro questo blog e ne curo buona parte del materiale.

Ma – una volta di più – lo sbotto della psicologa Lorita Tinelli fornisce indicazioni utili a riesaminare con genuinità e senso critico quanto si è qui pubblicato a proposito dei prodromi che hanno condotto alla sua militanza «anti-sette».

La Tinelli addirittura arriva a fare quest’affermazione:

Mi hai mai visto ingaggiare, lecitamente o meno, una guerra ad personam?

Fosse per me, risponderei immediatamente e senza alcun dubbio: sì, eccome!

Io, però, potrei essere considerato «di parte» per via delle intimidazioni e delle invettive che ho ricevuto da Lorita Tinelli.

In tal caso, basterebbe provare a porre la stessa domanda ad altri studiosi e professionisti che a turno sono finiti nel mirino della psicologa pugliese. Lasciatemi fare nomi e cognomi, non certo perché si debbano (indebitamente) coinvolgere queste persone nel tormentato panorama delle ossessioni di qualcuno, ma perché a una domanda tanto diretta e – fatemelo dire – clamorosa non si può non dare risposta. Basti citare studiose come la dott.ssa Silvana Radoani, la prof.ssa Raffaella Di Marzio, la dott.ssa Simonetta Po (che fra l’altro proprio nei giorni scorsi è tornata sull’argomento), piuttosto che un ricercatore come il dott. Vito Carlo Moccia, o anche un giornalista come il dott. Camillo Maffia, e persino una esponente «anti-sette» come la (criminologa?) Patrizia Santovecchi. E molto probabilmente sto tralasciando qualche altro caso simile.

Tant’è che qui in questo commento Lorita Tinelli rammenta proprio le sue persecuzioni ai danni delle sue tanto odiate (presunte) concorrenti:


E qui dovrei aprire un’ulteriore parentesi, sulla seconda frase riguardo al «profilo anonimo» a cui sarebbe (a suo dire) sbagliato «dare un like». A me questa pare un’evidente manifestazione di ipocrisia: non è proprio Lorita Tinelli a mettere «Mi piace» ogni giorno e in continuazione al profilo (anonimo e controverso) della sua collega «anti-sette» Sonia Ghinelli di FAVIS, alias «Ethan Garbo Saint Germain»? Provasse a negare questa lampante, inconfutabile ovvietà!

Ossia: quando il profilo anonimo (e quanto mai discutibile) è di una sua amica, allora è «buono» e dice cose «giuste»; quando invece il profilo (cioè il mio) non è nemmeno anonimo (perché c’è la mia foto in bella vista) ma – caso mai – fa capo a un’identità personale sulla cui autenticità sono stati sollevati dubbi (ammessi ma non concessi), allora ciò che quell’utente scrive va considerato una «vigliaccheria»! Semplicemente assurdo, oltre che offensivo.

Ma vado oltre, non è nemmeno questo l’aspetto che desidero sottolineare nelle disarmanti reazioni di Lorita Tinelli.

Ricordiamoci che sto parlando di una psicologa (lo si noti: non di una figura accademica esperta nelle diverse forme di religiosità e spiritualità!) la quale – di fatto – esprime o diffonde in continuazione pareri profondamente ostili nei confronti di gruppi religiosi non tradizionali, e che però (parole sue!) «non si è mai posta nella condizione di giudizio» e che sin «dall’inizio del suo percorso» ha «capito che le problematiche vanno affrontate non col giudizio ma con l'ascolto».

Una psicologa che fa di tutto per porre la propria persona sul palcoscenico mediatico e sotto i riflettori, e che lavora costantemente per coltivare una propria popolarità, utile per vari scopi.

Eppure, sebbene si tratti indubitabilmente di un personaggio pubblico, per quanto mi riguarda e per quanto concerne le attività del nostro blog, non è di alcun interesse la vita privata di Lorita Tinelli. L’unica rilevanza dei suoi trascorsi sta nel fatto che lei per prima ha adombrato le vere ragioni del suo «interessamento» rispetto ai nuovi movimenti religiosi, o rispetto a quello che ella definisce il fenomeno delle «sette religiose» o dei «culti distruttivi», presentandosi come ricercatrice di un singolare «centro studi» e proponendosi come imparziale ed obiettiva, quando di fatto sta portando avanti da venticinque anni una sorta di vendetta personale.



Un vezzo, questo, che in varie forme accomuna parecchi «anti-sette»: Lorita Tinelli ha avviato il suo business di «esperta» sulle «sette» per problemi sentimentali (ma guai a dirlo con chiarezza e sincerità!); Maurizio Alessandrini afferma che suo figlio è stato «rapito» e «mentalmente manipolato» da una «santona» mentre in realtà è fuggito da un ménage familiare «degno» di un personaggio come il Marchese di Sade; e Toni Occhiello sostiene di essere stato danneggiato dal gruppo religioso di cui faceva parte, mentre in realtà chi lo ha conosciuto bene ne parla come se fosse un danno ambulante e descrive una vita dissoluta (di cui qualche traccia affiora qua e là).

In poche parole, questi signori si arrogano il diritto di invadere le vite private e libertà altrui (in qualche caso addirittura incitando a violare la privacy), ma non appena qualcuno fa notare che non la stanno raccontando giusta e che stanno mettendo a repentaglio la reputazione altrui pubblicamente e senza alcun ritegno, che fanno? Berciano, strepitano e schiamazzano in coro!

Inoltre tentano in maniera preoccupante (come già ho personalmente denunciato in precedenza) di riqualificare la terminologia: quando uno di loro diffonde con asfissiante ripetitività gossip, articoli scandalistici o testimonianze non verificate né verificabili si dovrebbe parlare di «diritto di cronaca», quando invece un cittadino come me o qualche studioso quotato fa notare (e documenta, con dovizia di particolari) le incongruenze presenti nelle loro stesse dichiarazioni, allora si deve parlare di «stalking». Un ragionamento tanto lineare che somiglia a una pentola di spaghetti appena buttati nel colapasta.

Per usare le parole della stessa Lorita Tinelli, a quanto pare gli «anti-sette» sono persone che «ragionano in termini settari, del tipo con noi o contro».


Usciranno mai costoro da questa eterna, lapalissiana contraddittorietà?

lunedì 19 novembre 2018

La «Squadra Anti-Sette» e il caso di Imane Laloua: le nostre ipotesi confermate

Appena qualche giorno dopo la pubblicazione del nostro precedente post in cui abbiamo dato conto del discutibile operato della «Squadra Anti-Sette»(o SAS, la «polizia religiosa» del Ministero dell’Interno), si è presentata spontaneamente una riprova di quanto andavamo sostenendo.

Il caso di specie è quello (tragico) di Imane Laloua, una giovane donna di origine marocchina scomparsa dalla sua casa di Prato nel 2003, i cui resti scarnificati sono stati ritrovati solo tre anni più tardi in un’area di servizio dell’autostrada A1, ma la scoperta che l’identità di quei brandelli fosse da ricondurre alla povera Imane è avvenuta solo dodici anni più tardi e nei media si è letto come la SAS di Firenze abbia ipotizzato che si sia trattato di un assassinio da parte di una «setta satanica».

Il 13 novembre scorso, infatti, la trasmissione di RAI 3 «Chi l’ha visto?» ha rimandato in onda un appello che venne rivolto ancora un anno fa dalla madre di Imane, che (non ancora consapevole che il ritrovamento di quei resti umani sarebbe stato poi attribuito alla figlia) non si era mai rassegnata all’idea di non poter più rivederla.

In poco più di un minuto e mezzo, la signora porta alla luce la negligenza di chi avrebbe forse dovuto occuparsi della sua vicenda con un approccio differente:


«Mia figlia non è stata cercata», dice la madre della scomparsa Imane mostrando peraltro, nel suo immenso dolore, una straordinaria dignità: difficile comunuque mettere in discussione tale sua affermazione, fatta quattordici anni dopo la sparizione di sua figlia da casa.

E di nuovo, riferendosi alle indagini e precisando di averne visionato il fascicolo, soggiunge:


Tutti indizi che sembrano confermare quanto scrivevamo nel nostro post precedente:

«Forse questi poliziotti, con un caso ancora irrisolto dopo quindici anni dalla sparizione della povera Imane, fuorviati da tesi ideologiche troppo aleatorie per potersi amalgamare con dei compiti investigativi concreti e scientifici, stanno cercando in ogni modo di non perdere la faccia avvalorando le loro ipotesi?»

La pista investigativa del marito, pregiudicato e coinvolto in affari di droga, sembra essere stata trascurata; per lo meno, non ve ne è stata alcuna menzione quando ragionevolmente ci si aspetterebbe che sia la prima strada da percorrere per scoprire cosa fosse accaduto alla povera Imane.

Forse che il can can mediatico sulla presunta «setta religiosa» assassina è soltanto una cortina fumogena del tutto funzionale a far perdere le tracce delle negligenze commesse?

Ascoltiamo ancora qualche secondo dell’accorato appello della madre di Imane:


Come spiega poi il presentatore, è solo a seguito dell’intervista mandata in onda dalla trasmissione di RAI 3 l'anno scorso che la procura ha ripreso in esame il suo caso e ha scoperto, dopo gli opportuni confronti, che quei resti umani trovati una dozzina di anni prima (e rimasti per tutto quel tempo in una cella frigorifera) appartenevano alla scomparsa Imane Laloua.

A quanto pare, nessuno aveva indagato seriamente sulla scomparsa di una ventiduenne di origine marocchina: è stato più facile strombazzare il solito allarme «sette religiose» per lasciare la questione agli «esperti» della SAS e dare a vedere che ci stessero lavorando, così da giustificare l’esistenza di un’unità di polizia la cui costituzionalità è stata a più riprese messa in discussione.

Risultato: quindici anni di dolore struggente e irreparabile per una madre e un ignominioso disonore per la Polizia di Stato, un’istituzione della Repubblica.

A quale scopo i contribuenti pagano questa squadra in divisa dai dubbi intenti? Per sfoderare ipotesi insulse o quanto meno scarsamente fondate nel tentativo di coprire dell'inefficienza?

sabato 10 novembre 2018

Le assurdità e l’indifferenza della «Squadra Anti-Sette»: il caso di Imane Laloua

Nel nostro blog si è più volte parlato della «polizia religiosa» SAS (la «Squadra Anti-Sette» del Ministero dell’Interno) e del modo come viene strumentalizzata dagli esponenti «anti-sette» per fini quanto meno discutibili. Così è stato – solo per citare qualche esempio in ordine sparso – nei tristi casi di «Arkeon», degli inesistenti «Angeli di Sodoma» e di Mario Pianesi con «Un Punto Macrobiotico» (tuttora in pieno svolgimento).

Tant’è che questa strana unità di polizia è stata oggetto di ben tre interrogazioni parlamentari (prima, seconda e terza).

Nei giorni scorsi i «megafoni» mediatici, sempre affamati di contenuti (possibilmente sensazionalistici o scandalistici), hanno diffuso non tanto delle «notizie», ma delle ipotesi, riguardanti l’orribile morte di una giovane donna di Prato di origine marocchina, sparita nel nulla in giugno 2003, le cui ossa scarnificate furono ritrovate tre anni dopo da un camionista nei pressi di un’area di sosta sull’autostrada A1. Ben dodici anni più tardi, cioè solo qualche giorno fa, tramite l’esame del DNA la procura di Firenze ha accertato che quei resti umani appartenevano proprio a Imane Laloua. E questa è sostanzialmente l’unico dato di fatto che si possa considerare una notizia.


La prima stranezza che balza all’occhio è la tempistica: dodici anni per raccogliere e rendere pubblico l’esito di un esame del DNA. Dovrà pur esservi una spiegazione, ma gli articoli che strombazzano la «notizia» con titoloni ad effetto come «Uccisa e fatta a pezzi da una setta», «Imane (…) ammazzata da una setta satanica» e «L'ombra della setta satanica sulla morte di Imane» ben si guardano dallo svolgere un serio lavoro giornalistico ed approfondire un aspetto di tanto evidente rilievo.

Al contrario, danno per assodato un elemento (ossia il supposto colpevole, una presunta «setta satanica») che, invece, è solamente un’ipotesi, e nemmeno particolarmente plausibile.

Infatti, ben distanziato dal titolone roboante, tutti gli articoli riportano:

«la squadra "anti-sette" della mobile di Firenze ipotizza che la donna fosse stata vittima di un rito satanico»

o anche:

«la squadra "anti-sette" della mobile di Firenze ipotizzò allora, e fa la stessa cosa anche oggi, che la vittima di quell'orrendo trattamento fosse stata prima assassinata durante un rito satanico»

Qualche prova o elemento concreto in tal senso? Nessuno: solo congetture, in parte basate sul ritrovamento di un diario scritto da una sedicenne di Prato e risalente al 2004, in cui (sembra, stando a un articolo de «Il Tirreno») la giovane vagheggiava di cimiteri profanati e di un rito sacrificale ai danni di una vittima prelevata in strada. Racconti che, tuttavia, la ragazza precisò essere solo frutto della sua fantasia.

In poche parole, è lo stesso procedere deduttivo e indiziario che si è ben visto mettere in atto a don Aldo Buonaiuto (consulente della SAS) nel già citato caso dei presunti «Angeli di Sodoma»: basta leggere gli stralci della relazione del prete inquisitore e metterli a confronto con la realtà dei fatti, per capire a quali scioccanti mistificazioni ci si può trovare di fronte.

Ma non è tutto, vi è anche un’incongruenza nella datazione.

Sì, perché sebbene già agli inizi del 2005 si rumoreggiasse dell’eventualità che una qualche forza di polizia venisse specificamente ed espressamente deputata ad occuparsi di «sette religiose», di fatto l’istituzione concreta della SAS risale ai primi di novembre del 2006 e si deve ad una circolare emanata dall’allora capo della polizia Giovanni De Gennaro:


Ma se la SAS è ufficialmente partita in novembre 2006, non si capisce come sia possibile che:

«[il] 21 giugno 2006 [data del ritrovamento dei resti della povera Imane] la squadra "anti-sette" della Mobile di Firenze ipotizzò che la vittima (…) fosse stata prima assassinata durante un rito satanico».

La «Squadra Anti-Sette» quindi era già in attività prima di essere istituita?

O forse questi poliziotti, con un caso ancora irrisolto dopo quindici anni dalla sparizione della povera Imane, fuorviati da ideologie troppo aleatorie per potersi amalgamare con dei compiti investigativi concreti e scientifici, stanno cercando in ogni modo di non perdere la faccia avvalorando le loro ipotesi? Chissà, solo gli addetti ai lavori potrebbero rispondere a questa domanda.

D’altronde, proprio in questi giorni si assiste ad un evidente tentativo della SAS di porsi sotto le luci della ribalta: ieri a Roma ad un convegno presso l’Università LUMSA in presenza addirittura del Ministro dell’Interno Matteo Salvini, il 22 ottobre scorso a «Prima dell’Alba» su RAI Tre, qualche settimana fa ancora sui media per il caso di Mario Pianesi. Forse si prospetta la necessità di richiedere risorse e di dare a vedere che si sia prodotto qualche risultato?

Tant’è che fra i titoloni dei «megafoni» mediatici si legge: «Risolto il giallo sulla scomparsa di Imane Laloua». Risolto? E come? Con un’ipotesi traballante, forse?

Insomma, tornando al caso reale della giovane marocchina mutilata, da qualunque punto la si guardi, è lampante che l’asserto «ammazzata da una setta» è a dir poco pretestuoso, se non addirittura destituito di qualunque fondamento.

Piuttosto, era stata battuta la pista (ben più logica ed immediata) del marito della giovane?

Ripartiamo infatti dal giorno in cui la 22enne Imane sparisce nel nulla, nel settembre 2003:

«Erano nella loro casa di Montecatini e litigarono perché Zoubida [la madre] non voleva che Imane raggiungesse il marito a Prato. Si erano sposati tre anni prima, ma lui spacciava droga e continuava a entrare e uscire dal carcere. Un paio di mesi dopo, quando la madre andò a cercarla a Prato, il marito disse di non saperne niente e Zoubida capì che era successo qualcosa di grave.»

Quindi Imane era sposata con un uomo che si capisce fosse un pregiudicato continuamente coinvolto in affari di droga. Quali indagini sono state svolte per accertare eventuali responsabilità del marito? Possibile che non sapesse proprio nulla delle frequentazioni della moglie, che potrebbero averla trascinata in quella fatale tragedia?

È stata presa nella dovuta considerazione la versione resa dalla madre? Oppure il suo immenso dolore è stato completamente ignorato per privilegiare una «ipotesi» ben più «vendibile» in termini mediatici? Possibile che dei rappresentanti delle istituzioni mostrino una tale indifferenza?

Ci auguriamo che la magistratura possa accertare sul serio la verità dei fatti e rendere giustizia a una donna che ha perso la figlia a causa di un crimine efferato.

Ci auguriamo inoltre che gli inquirenti valutino con estrema attenzione tutti gli elementi a disposizione, senza lasciarsi trascinare dalle fake news «anti-sette».

venerdì 12 ottobre 2018

Incoerenza o provocazione? Gli «anti-sette» hanno la coda di paglia?

Dalle pagine di questo blog abbiamo notato e messo in luce molte volte come – da un lato – gli esponenti «anti-sette» di CeSAP, FAVIS, AIVS e GRIS (per non parlare della loro capofila europea FECRIS e della «polizia religiosa» di cui sono consulenti, la «Squadra Anti-Sette» del Ministero dell’Interno, meglio nota come SAS) spesso si lancino in affermazioni di nobili principi o in un’apparente difesa dei valori della convivenza civile o della legalità. Principi e valori che, però, sovente sono i primi a infrangere con le loro offese, le loro intimidazioni, le loro canzonature, le loro false accuse, le loro denigrazioni strumentali e le loro allucinatorie delazioni. È questo un fenomeno tanto ricorrente che abbiamo dedicato un’intera pagina di riepilogo (che teniamo costantemente aggiornata) ai post della categoria Contraddizioni e incoerenza.

I loro tentativi di offuscare la libertà religiosa mettendo alla gogna i piccoli gruppi spirituali e le confessioni minoritarie definendoli «sette religiose», «culti distruttivi» o «culti abusanti» per ghettizzarle e sottoporle a un vero e proprio «stigma» tramite campagne mediatiche e propaganda continua, sono ormai un fatto noto di cui sempre più gente viene a conoscenza e che costoro nemmeno tentano più di negare.

Forse per provocazione o forse nel disperato tentativo di coprire i propri reali intenti, assistiamo a post come il seguente, condiviso alcuni giorni fa da Sonia Ghinelli di FAVIS:


Il post consente di visualizzare questo video:


Ci domandiamo: non è forse questo il massimo in fatto di ipocrisia? Proprio una esponente «anti-sette», che (anche perché non impegnata in altra occupazione o professione che possa dirsi utile alla società) fa della promozione e trasmissione dell’odio online la sua attività principale, condivide un tale video? Proprio Sonia Ghinelli, che dal suo discutibile profilo anonimo Ethan Garbo Saint Germain, di giorno in giorno diffonde «notizie» o comunicati per lo più tendenziosi che mirano a generare allarmismo nella gente e a spaventare le persone?

Perché questo video non lo ha condiviso proprio con i suoi amici militanti «anti-sette» che conducono le medesime attività spesso facilmente riconoscibili come «hate speech»?

Non ci risulta infatti che Sonia Ghinelli sia mai intervenuta per ricondurre nei ranghi del senso civico i suoi colleghi di AIVS, nemmeno nei momenti di maggiore espressione online di odio nei confronti di confessioni religiose, minoranze etniche, o intere nazionalità per mezzo di false «notizie» allarmanti.

Non ci risulta nemmeno che Sonia Ghinelli sia intervenuta per fare osservazione alla sua collega e amica di sempre Lorita Tinelli in una delle innumerevoli occasioni in cui ha pronunciato uno dei suoi anatemi generalizzati contro le fantomatiche «sette».

Non è dunque giunto il momento di lavare i panni sporchi in casa propria, invece di aggiungere un po’ di lustrini all’abito e girarlo al rovescio per nasconderne le macchie?

sabato 22 settembre 2018

Maria Elisabetta Alberti Casellati e le contraddizioni della propaganda «anti-sette»

Davanti alla TV e seduti di fronte alla carta stampata dei quotidiani di una settimana fa, milioni di italiani hanno letto ed ascoltato una dichiarazione della presidentessa del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, presumibilmente annuendo ed approvandone la retorica «politicamente corretta».


Un ineccepibile ed irreprensibile intervento di prammatica, non vi è dubbio.

Ma quale coerenza per la giurista rodigina?

Poniamo un interrogativo tanto inquietante non certo per sollevare una polemica fine a se stessa, ma perché il fulcro stesso dell’intervento della Alberti Casellati confligge clamorosamente con le sue iniziative parlamentari precedenti:


In questo stralcio, la Alberti Casellati si sta particolarmente riferendo al periodo più buio dell’ultimo secolo italiano, quello del ventennio fascista. Periodo del quale abbiamo parlato anche noi di recente nei due post a proposito della circolare antireligiosa Buffarini Guidi e dei suoi diretti strascichi successivi che giungono fino ai giorni nostri con la propaganda «anti-sette».

Il binomio fra fascismo/nazismo e intolleranza religiosa (oltre che etnica) è storicamente acclarato. Andrebbe precisato che il fascismo non è l’unico estremismo politico a promuovere persecuzioni ai danni delle confessioni religiose (vedasi il funesto e purtroppo attualissimo esempio di Russia e Cina), ma in questo post vogliamo focalizzare il periodo fascista sulla scorta della rievocazione del triste anniversario delle «leggi razziali», da cui trae spunto il succitato intervento della presidentessa del Senato.

L’incoerenza di quel discorso puranco inappuntabile risiede – dicevamo – nelle iniziative parlamentari precedentemente messe in atto dalla Alberti Casellati. Non casi isolati, ma manovre ben precise dettate dal manifesto ideologico «anti-sette», del tutto in linea con l’ispirazione intollerante della «Buffarini Guidi» e, di fatto, un tentativo di continuazione di quel diktat fascista.

Correva l’anno 2001 quando in novembre l’allora senatore di Alleanza Nazionale Renato Meduri presentò il disegno di legge nr. 800 dal titolo «Norme per contrastare la manipolazione psicologica», che s’imperniava apertamente sulle controverse teorie del «lavaggio del cervello» e mirava direttamente e palesemente a restaurare il «reato di plagio», giudicato incostituzionale nel 1981.


Nostalgico del «duce», Renato Meduri era (ed è tuttora), notoriamente ed espressamente vicino alle posizioni del fascismo, come egli stesso non esita a dichiarare pubblicamente (vedasi figura seguente). Indagato e poi prosciolto per la strage dovuta all’attentato al treno Freccia del Sole a Gioia Tauro, Meduri era comunque ufficialmente una figura di riferimento delle proteste violente della destra di Reggio Calabria. Un’inclinazione  alle maniere forti e alla spavalderia che non l’ha mai abbandonato sin dai tempi del «Boia chi molla!», a giudicare dalle sue parole:


Meno di un anno più tardi, fu proprio Maria Elisabetta Alberti Casellati a formulare e presentare una proposta di legge del tutto simile, la nr. 1777 di ottobre 2002, dal titolo «Disposizioni concernenti il reato di manipolazione mentale». Come ebbe ella stessa a precisare ulteriormente in una trasmissione televisiva andata in onda a SAT2000 (ora TV2000) il 24 marzo del 2004, l’obiettivo dichiarato di quel disegno di legge erano in particolar modo le «sette religiose».

I due progetti di legge (Meduri e Casellati) vennero assegnati alla Commissione Giustizia del Senato, la quale il 3 febbraio 2004 dispose l’assorbimento del nr. 800 nel testo del nr. 1777. Le due proposte di legge, così accorpate, proseguirono nell’iter ma non si spinsero oltre la fine della legislatura (27 aprile 2006) e non giunsero nemmeno al vaglio dell’assemblea parlamentare. Un’iniziativa legislativa che, come ebbe a commentare l’esperto di religioni Massimo Introvigne («sulla base di vent’anni [oggi quasi trentacinque] di esperienza nello studio delle cosiddette “sette”») in un articolo su «Il Foglio» del 19 marzo 2004, altro non fu se non un «capriccio liberticida della Casa per le libertà», un’iniziativa «pericolosa (…) e insieme inutile per gli scopi che si propone di raggiungere».

Ma nonostante i pareri accademici, gli appetiti «anti-sette» della Alberti Casellati, evidentemente, non si erano placati. Infatti, dieci anni più tardi (26 febbraio 2014) la senatrice pronunciò un’interrogazione parlamentare che riprendeva il discorso contro i nuovi movimenti religiosi da dove l’aveva lasciato, riproponendo l’allarmismo e la fanfara mediatica contro fantomatiche (ma mai chiaramente specificate) «organizzazioni all’origine delle derive settarie» e «gruppi a carattere religioso, esoterico o spirituale». Come sempre, guai a chi è anticonformista.

Fra i pochi cofirmatari di quella interrogazione parlamentare troviamo Pietro Liuzzi, già più volte citato nel presente blog, concittadino ed amico personale di Lorita Tinelli del CeSAP.

Non è affatto un caso: nel testo presentato dalla Alberti Casellati vengono infatti portate a riferimento le associazioni «anti-sette» corrispondenti della controversa organizzazione europea FECRIS, quindi sia il succitato CeSAP, sia la FAVIS e il suo presidente Maurizio Alessandrini.

Naturalmente, il testo non manca di presentare come «necessaria» la controversa unità della Polizia di Stato nota come SAS o «Squadra Anti-Sette», che verrebbe meglio descritta come una «polizia religiosa».

Tutti elementi che, assieme ai molti altri segnali dell’estremismo di destra che caratterizza gli «anti-sette», richiamano in tutto e per tutto la repressione religiosa in atto nel periodo fascista.


Con quale memoria storica, dunque, è un «obbligo morale fare i conti»?