sabato 28 luglio 2018

Odio «anti-sette» e «hate speech»: cosa dicono le normative (europee e non)

Abbiamo sovente denunciato dalle pagine di questo blog l’opera costante e sistematica di offesa e discriminazione ai danni dei gruppi religiosi di minoranza da parte delle associazioni «anti-sette» come FAVIS, CeSAP e ultimamente soprattutto AIVS.

In molte occasioni abbiamo messo in luce come l’operato di AIVS (e degli esponenti «anti-sette» della loro rete) sia non solo evidentemente riprensibile sotto il profilo morale e deontologico e pure del buon senso, ma di frequente anche ai limiti del lecito quando non chiaramente delinquenziale.

Sovente i post su Facebook, gli articoli di giornale o le dichiarazioni rese in TV o via Internet dagli esponenti «anti-sette» assumono le caratteristiche di quello che nella normativa europea ed internazionale viene da tempo classificato come «hate speech», espressione inglese che in italiano vale per «discorso di odio» o «linguaggio di odio».

Volendo meglio esemplificare e dettagliare le ragioni per cui esprimiamo tali giudizi, prendiamo spunto da un’ottima sintesi della normativa in tema di «hate speech» pubblicata una decina di giorni fa da «Agenda Digitale» (una testata online con sede a Milano) e scritta dalla prof.ssa Maria Romana Allegri, docente di diritto pubblico, informazione e comunicazione presso l’università di Roma La Sapienza.

Anzitutto occorre definire il significato legale del vocabolo «hate speech»: su questo fa fede una raccomandazione del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa del 30 ottobre 1997, secondo la quale «nel termine “hate speech” si intende raccogliere tutte quelle forme di espressione che diffondano, incoraggino, promuovano o giustifichino il disprezzo razziale, la xenofobia, l’antisemitismo o altre forme di odio fondate sull’intolleranza, fra cui l’intolleranza espressa mediante un nazionalismo aggressivo e l’etnocentrismo, la discriminazione e l’ostilità nei confronti delle minoranze, dei migranti e delle persone di origine straniera».

Facilmente ci sovvengono esempi di tal genere, se pensiamo alle cattiverie anti-nipponiche di Toni Occhiello e dei suoi accoliti, o alle affermazioni evidentemente razziste nei confronti di Rom e Sinti.


Ma proseguiamo la nostra breve trattazione sulla normativa in vigore.

La definizione che abbiamo riportato appena prima è divenuta in seguito la base teorica per diversi altri provvedimenti di diritto internazionale. Si tenga conto che nel 1997 la situazione di Internet era alquanto differente da quella attuale, Facebook era ancora ben lontano dal lancio e la diffusione delle discussioni online era un fenomeno del tutto in embrione.

Alcuni anni più tardi, sebbene i «social network» fossero ancora solo marginalmente di utilizzo comune (ai tempi il più popolare era indubbiamente Myspace ma a partire dall’anno seguente sarebbe stato un po’ alla volta spazzato via dall’avvento di Facebook), tuttavia i forum e i gruppi di discussione erano una realtà ormai consolidata, mentre nei paesi più all’avanguardia erano di uso comune già da una decina d’anni.

In gennaio 2003 a Strasburgo vide così la luce la «Convenzione di Budapest sulla criminalità informatica»; con questa, gli Stati aderenti si obbligavano ad adottare sanzioni penali per punire la diffusione di materiale razzista e xenofobo attraverso i sistemi informatici, fra cui minacce e insulti, nonché la negazione, la minimizzazione, l’approvazione o la giustificazione di crimini di genocidio o di crimini contro l’umanità.

La Convenzione (firmata anche dall’Italia) afferma chiaramente che ogni firmatario ha il dovere di «adottare provvedimenti legislativi e di altro genere al fine di qualificare come illeciti di natura criminale (secondo i rispettivi ordinamenti), laddove commessi deliberatamente e senza giusta causa, le seguenti condotte: (…) insultare pubblicamente, per mezzo di un sistema computerizzato, (i) altre persone a causa della loro appartenenza ad un gruppo che si distingue per razza, colore, discendenza od origine etnica o nazionale, o per religione (…); oppure (ii) un gruppo di persone che si distingue per una qualunque di queste stesse caratteristiche».

D’altronde, il divieto di ingiusta discriminazione è un principio giuridicamente vincolante, sancito oggi dall’art. 21 della «Carta dei diritti fondamentali», secondo cui «è vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l’origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, la disabilità, l’età o l’orientamento sessuale».

Si badi bene che fra le caratteristiche così tutelate dalla Carta dei diritti esistono anche le  «convinzioni personali», fatto assai lungimirante da parte dell’estensore di quel documento, poiché esclude a priori l’alibi (peraltro menzognero oltre che profondamente subdolo e maligno) secondo cui i «movimenti religiosi alternativi» non sarebbero da considerare «religioni propriamente dette» ma solo «gruppi di serie B»; alibi spesso accampato dagli «anti-sette».

Anche la direttiva 2000/43/CE del Consiglio d’Europa, del 29 giugno 2000, proclamava il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica.

Similmente il Parlamento Europeo, con una risoluzione approvata il 14 marzo 2013, ha evidenziato l’esigenza di una revisione della decisione-quadro 2008/913/Gai, in modo da includervi anche le manifestazioni di antisemitismo, intolleranza religiosa, antiziganismo, omofobia e transfobia.

Tutto ciò si rende assolutamente necessario perché, come ben riassume la prof.ssa Allegri in un conciso passaggio del suo articolo: «È indiscutibile che l’ambiente digitale – e in particolare quello dei social network – abbia un potere di diffusione e di pubblicità dell’odio ben maggiore rispetto ai media tradizionali, così come lo è il fatto che l’odio, una volta immesso in Rete, abbia una notevole capacità di persistenza e di resistenza ai tentativi di occultamento dei messaggi offensivi».

Persino l’UNESCO è dovuta intervenire, con un documento di settanta pagine, sulla medesima falsariga.

Va ricordato (sempre con prof.ssa Allegri) che «la Convenzione Europea per i Diritti Umani giustifica talune limitazioni della libertà di espressione, laddove necessarie allo sviluppo di una società democratica e vieta in via generale che l’esercizio di qualsiasi diritto possa tradursi nell’eccessiva compressione dei diritti altrui». In altri termini, è ovvio che non si può limitare il diritto di espressione, in nessun modo (come spesso tentano di fare gli «anti-sette»); le critiche ai movimenti religiosi non possono in alcun modo essere tacitate.

Ma il limite risulta ben chiaro nelle definizioni riportate prima e promulgate dalle istituzioni europee: quando si mettono assieme pagine, siti e gruppi Facebook dedicati a istigare all’odio, a violare la privacy, o a denigrare movimenti religiosi tanto quanto intere etnie (come sopra), allora il confine fra la libera espressione di un disagio personale e l’incitamento alla violenza è stato nettamente travalicato.

Sono dunque legittimati ad osteggiare in continuazione le minoranze religiose i facinorosi di AIVS o i sedicenti «esperti» di CeSAP e FAVIS, espressione della sigla europea FECRIS e referenti privilegiati della squadra «anti-sette» SAS?

È lecito che essi continuino incessantemente ad offenderle e a deriderle?

Stando alle normative qui presentate, la risposta a queste domande è un «no» risoluto.

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