giovedì 30 agosto 2018

Gli «anti-sette» visti con gli occhi degli «anti-sette»: Lorita Tinelli vs Giovanna Balestrino

Potrebbe un esponente «anti-sette» essere severamente criticato ed ideologicamente demolito da un altro esponente «anti-sette»?

Potrebbe un’organizzazione «anti-sette» come il cattolico GRIS («Gruppo di Ricerca e Informazione Socio-Religiosa») ritrovarsi ad essere profondamente contrapposto, sul piano dialettico, a un’associazione «anti-sette» come il CeSAP (il «Centro Studi sugli Abusi Psicologici»), corrispondente italiana della controversa FECRIS e referente della «Squadra Anti-Sette» (SAS) del ministero dell’interno?

Potrebbe, eccome. Anzi: può.

Ne diamo dimostrazione qui, con una breve ma significativa presentazione di prove multimediali, tornando ad attingere dalla sbalorditiva esposizione pseudo-scientifica fornita da Lorita Tinelli nel suo webinar del 18 aprile scorso, della quale non finiremo mai di essere riconoscenti alla psicologa pugliese perché si è rivelata fonte pressoché inesauribile di prove concrete della superficialità, banalità e scempiaggine ravvisata nell’operato degli estremisti antireligiosi.

Lorita Tinelli del CeSAP sostiene che una «culto distruttivo» o una «setta» abbia questa principale caratteristica:


Si era già trattato in dettaglio in un post precedente dell’inquietante inconsistenza di un siffatto discorso in tema di fideismo.

Ora andiamo oltre ed esploriamo quali conseguenze sconvolgenti può avere un tanto superficiale procedere dialettico.


Giovanna Balestrino (prima da destra nella foto), da quasi venticinque anni affermata avvocatessa del foro di Alessandria e fervente cattolica nonché rappresentante di zona del GRIS, racconta così di una toccante esperienza che l’ha condotta al matrimonio:


Proviamo ad analizzarlo in dettaglio, concetto per concetto.

Nello stralcio che evidenziamo qui di seguito, non si ravvisa forse una «adesione totale» ai dettami del gruppo (tanto, nella fattispecie, da determinare se protrarre o meno una convivenza pre-matrimoniale)?


E in questo successivo passaggio, non si ravvisa forse di nuovo un «atteggiamento fideistico» e (di nuovo) una «adesione totale» alla «parola del leader»?

Addirittura un «leader» solamente intermedio dato che si tratta di un sacerdote come molti altri, seppur nella ieratica cornice di un luogo come Medjugorje?


Importante precisazione: a noi curatori del presente blog – che religiosi siamo assai (anche se di estrazioni spirituali e dottrinali nettamente differenti) – pare non vi sia alcunché di biasimevole in una tanto fervida espressione di fede; al contrario, la riteniamo lodevole non tanto perché si colloca in un tempo di profonda crisi della Chiesa Cattolica, ma piuttosto per la profonda coerenza con gli ideali e con la morale afferenti al proprio credo. Poco importa che si possa pensarla in maniera diametralmente opposta: costei ha tutto il diritto di professare simili credenze (mentre ribadiamo la nostra assoluta disapprovazione per le sue inquisitorie attività di contrasto ai nuovi movimenti religiosi, che riteniamo non solo lesiva dei diritti altrui, ma anche del tutto contraria ai principi fondanti del cristianesimo).

Eppure, secondo Lorita Tinelli del CeSAP, quell’intenso ardore religioso deve essere schernito e deriso.

E altrettanto vale per affermazioni come questa, che dalla spiritualità quasi straborda nella poesia:


Ed ecco come risponderebbe la cattolicissima avvocatessa a chi vorrebbe trovare argomentazioni «scientifiche» per convincere i credenti di una data fede dell’inutilità del loro credo (si noti che asserzioni simili vengono adoperate anche contro chi recita orazioni buddiste):


Questo il parere della esponente «anti-sette» Giovanna Balestrino, quest’altro invece quanto dichiara l’«anti-sette» Lorita Tinelli:


Insomma, le credenze del tale o talaltro gruppo religioso preso di mira dalla psicologa «anti-sette» Lorita Tinelli devono essere considerate prive di «una base teorica e ideologica sostenibile», tanto da concludere: «come si fa a credere a cose di questo genere?».

Non si può credere in questo genere di cose, «a meno che» (sembra voler insinuare la Tinelli) «non si sia mentalmente labili». Tant’è che la fondatrice del CeSAP, referente della «Squadra Anti-Sette» della Polizia di Stato, addirittura dà a intendere che tale «disturbo mentale» che porta a «credere a cose di questo genere» serpeggi persino fra «soggetti socialmente adattati» che praticano «lavori di un certo livello».

Di nuovo, non stiamo esagerando, sono letteralmente parole sue:


Di fatto, la Tinelli si sta addirittura permettendo di discriminare, in maniera alquanto sprezzante, i fedeli di religioni e movimenti religiosi, etichettando questi ultimi come «culti distruttivi», persino sindacando sulla loro estrazione sociale o sui loro ruoli professionali.

Sembra quasi che stia parlando dell’avvocatessa di Nizza Monferrato e della sua nota e rispettata famiglia, la cui forte connotazione cattolica è presente (come è peraltro ovvio dedurre) in ogni aspetto della loro esistenza.


Questo discorso non ci pare solo di un’ovvietà e di una banalità tali da risultare pressoché disarmante se proferito da una psicologa la cui autorevolezza viene spesso citata ad esempio da media nazionali. No: ci sembra anche di una superficialità e di una tendenziosità allarmanti: incita alla discriminazione su basi del tutto inesistenti.

Si badi bene che la psicologa «anti-culto» critica, dileggia e discrimina non solo per ciò che (secondo lei) fanno gli appartenenti ai movimenti religiosi, ma anche per ciò in cui credono. Parrà cosa da poco, ma è invece di una gravità preoccupante: una psicologa (peraltro priva di qualifiche accademiche in materia religiosa) si permette di sindacare su ciò in cui gli altri credono, pubblicando poi ai quattro venti le sue opinioni. Ciò è illegittimo, senza il minimo dubbio.

E, come si è qui dimostrato, risulta in una discriminazione «anti-sette» che potrebbe specularmente venire applicata ad un esponente «anti-sette» del GRIS come Giovanna Balestrino.

lunedì 27 agosto 2018

Aggiornamento breve - «anti-sette», CeSAP e soldi facili

Come il nostro blog ha già ampiamente documentato in precedenza per l’associazione AIVS e per qualche giornalista compiacente tipo Gianni Del Vecchio o Flavia Piccinni, gli «anti-sette» non si accontentano dei proventi del loro business, che si tratti vuoi di denaro liquido vuoi di popolarità o visibilità mediatica.

Al contrario, cercano anche di racimolare soldi sfruttando il canale mediatico di Internet e presentandosi nel modo migliore possibile come enti di «pubblica utilità».

Nell’esempio che segue, vediamo la stessa tattica adottata dal CeSAP di Lorita Tinelli, consociata italiana della controversa sigla europea FECRIS.

Ecco infatti un sito web sul quale il CeSAP ha attivato una raccolta fondi:


Come si può ben vedere, fino ad ora hanno raggranellato 45 dollari americani.

L’obiettivo dichiarato è raggiungere i 10.000 dollari.

E a quanto pare non saranno gli unici denari a finire nelle casse «anti-sette», se si tiene conto che:
- FAVIS chiede il il 5 per 1000;
- CeSAP chiede il il 5 per 1000;
- AIVS chiede il il 5 per 1000;
- FAVIS fa la raccolta fondi tramite «autofinanziamenti.it» come mostrato nel presente post;
- AIVS sollecita tesseramenti e offre tesseramenti a un suo non meglio definito «Gold Club»;
- CeSAP sollecita donazioni anche via Facebook;
- FAVIS sollecita donazioni sul sito proprio e sulla pagina Facebook.

Ci domandiamo se la «trasparenza» con cui rendiconteranno sui fondi così raccolti sarà la medesima messa in campo dallo stesso FAVIS, ovverosia non fornire alcun dettaglio sulla gestione dei propri ricavi e mettere alla porta chiunque sollevi delle perplessità sul loro modus operandi, come abbiamo mostrato nel post appena precedente a questo.

venerdì 24 agosto 2018

Intolleranza «anti-sette»: FAVIS, censura e riqualificazione terminologica

di Mario Casini


Qualche giorno fa, ho notato un post di aprile scorso sulla pagina Facebook del FAVIS, l’associazione «anti-sette» di Maurizio Alessandrini e Sonia Ghinelli (corrispondente italiana della controversa FECRIS e referente della costosa «Squadra Anti-Sette» SAS del Ministero dell'Interno) in cui si richiede denaro ai contribuenti mediante il cinque per mille.

Così, mi è venuto l’uzzolo di provare a chiedere un po’ di trasparenza alla sigla riminese:


La reazione è stata non solo fortemente ostile e piccata (cosa che avrei senz’altro potuto aspettarmi), ma anche in buona parte fuori luogo. Segno evidente che (come ho poi commentato) il mio quesito ha scoperchiato un pentolone.


E infatti il nocciolo della risposta (al netto dell’attacco ad hominem nei miei confronti) si potrebbe riassumere in: «secondo la legge, non siamo tenuti a fornire alcun rendiconto, pertanto non lo abbiamo mai fatto e non intendiamo farlo».

Certo, avrei potuto chiudere la questione accontentandomi (per modo di dire) di aver avuto l’ennesima riprova del modus operandi «anti-sette».

E invece, spavaldo quale sono, ho voluto insistere:


La replica si commenta da sé: una riga per ribadire la propria lampante contraddizione in termini («siamo trasparenti, però non vogliamo fornire rendiconti siccome la legge ce lo consente») e tutto il resto per denigrare me medesimo.

A questo punto non potevo più tirarmi indietro, e così ho rintuzzato:


E qui spunta fuori la reazione stizzita e scomposta tipica di chi, messo in un angolo da argomentazioni stringenti, non ha altri mezzi se non l’attacco personale e… la propaganda.

Dice il rappresentante di FAVIS (ritengo debba essere Maurizio Alessandrini, ma potrei averlo confuso con Sonia Ghinelli, d'altronde non si firmano) che i miei commenti, in cui richiedo (con rispetto) delucidazioni e trasparenza, sono una «attività di troll».

In Internet, la parola «troll» significa «chi interviene all'interno di una comunità virtuale in modo provocatorio, offensivo o insensato, al solo scopo di disturbare le normali interazioni tra gli utenti».

Questa si potrebbe definire a tutti gli effetti «Verbal Engineering», tecnica di cui fu famigerato e malvagio maestro Joseph Goebbels nella Germania nazista.

Lo dirò senza mezzi termini: gli «anti-sette» di FAVIS, CeSAP, AIVS (e qualche altro) alterano sistematicamente le definizioni delle parole, piegandole alle proprie necessità, col solo scopo di conculcare i diritti altrui (in questo caso la libertà di parola).

A chiunque scriva cose sgradite agli «anti-sette» viene appioppato l’appellativo di «troll», in particolar modo a chi fa loro notare certe incongruenze o discrepanze. Il risultato dell'uso improprio di questo termine è che chiunque scriva qualcosa che costoro non condividono «diventa» un «troll», anche se si esprime educatamente, pacatamente e in linea con il contesto della discussione.

Somiglia un po’ a quello che spiega il noto giornalista Marcello Foa in questo video di cui riprendo qui un brevissimo stralcio:


E infatti, ecco quello che succede con un’altra commentatrice che interviene per darmi ragione:


Scatta immediatamente la censura, questa volta istantaneamente ed espressamente messa in atto proprio da Sonia Ghinelli (tramite il suo discusso profilo anonimo «Ethan Garbo Saint Germain»):


Il commento «scomodo» è stato infatti prontamente eliminato, e al suo posto rimane lo «stigma», del tutto fazioso ed ingiustificato, di «troll». Nessuna opinione divergente, nessuna voce fuori dal coro: nulla di tutto ciò viene permesso.

Al contrario, chi muove delle osservazioni e sollecita un esame di coscienza, viene messo alla porta come «troll».

È esattamente la stessa prassi che gli «anti-sette» adottano da molti anni con la parola «setta», che (come abbiamo spiegato e documentato in precedenza) per secoli non ha avuto un significato negativo. Sono stati loro ad alterarne il significato fino a ridurlo alla grottesca accezione di una sorta di «gruppo di mentecatti e malfattori che si lavano il cervello a vicenda quando non sono dediti a scannarsi a comando e a seviziare neonati».

Tornano in mente funeste dichiarazioni d’intenti atte a screditare intere etnie con devastanti conseguenze:


Tacciando di «troll» quelle che sono in effetti semplici voci fuori dal coro, gli «anti-sette» sono passati ad un inquietante livello di produzione lessicale a scopo discriminatorio. Sembrano infatti voler dire: «chi scrive commenti a sostegno di chi noi consideriamo essere un troll, è un troll egli stesso e viene eliminato».

Nemmeno i nazisti del terzo reich furono così svelti nel manipolare la terminologia modificando la definizione di appartenente alla razza giudaica e creando una categoria di «giudeo onorario» in quanto sostenitore di altri giudei. Goebbels docet.

mercoledì 22 agosto 2018

La strage di Waco (1993): la coscienza sporca di «anti-sette», media e governo

Con questo terzo contributo a proposito della tragedia di Waco in Texas (USA) del 1993, il «nostro» Epaminonda prosegue nella disamina delle reali responsabilità che diedero origine al massacro di un’ottantina di persone, fra cui donne e bambini, facenti parte di una piccola comunità religiosa locale, i Davidiani.

Per un più rapido riferimento, riepiloghiamo i due post precedenti sul medesimo tema:
- [08 Agosto 2018] La strage di Waco: propaganda «anti-sette» moralmente responsabile?

Un doveroso approfondimento che getta luce su un sordido verminaio di interessi nascosti, per non parlare del solito, devastante ruolo da carogna degli apostati delle comunità religiose.

martedì 21 agosto 2018

Paradossi «anti-sette»: Carlo Climati e Bruno Zambon

Ai primordi del nostro blog abbiamo accennato al convegno che si tenne in dicembre 2007 presso l’ateneo vaticano Regina Apostolorum: un evento voluto dal GRIS con le luci della ribalta tutte puntate sul prete inquisitore don Aldo Buonaiuto e sulla «Squadra Anti-Sette» (SAS); in quell’occasione vennero presentate le assurde statistiche del suo numero verde «contro l’occulto» che ebbero il grottesco risultato di dimostrare l’inesistenza del presunto «allarme sette» e l’inconsistenza delle argomentazioni «anti-sette».

Già a quei tempi, l’addetto stampa del Regina Apostolorum era Carlo Climati, un giornalista e scrittore dell’ambiente «anti-sette», collaboratore del GRIS (nonché organizzatore di numerosi convegni del GRIS sin dai primi anni 2000), ben noto per i suoi anatemi contro la musica rock «heavy metal» e contro un certo stile di vita anticonformista.


In più occasioni Climati ha raccontato di aver fatto parte come bassista proprio di una band heavy metal, puntualizzando che quella musica e quella cultura l’avevano «traviato». Ci domandiamo se non si tratti di una sorta di «apostata» del satanismo: l’unica cosa certa è il suo passaggio da un estremo all’altro.

Sul Web si trova ancora qualche traccia di un passato che probabilmente per Climati risulta «scomodo»:


Non possiamo prendere per oro colato ciò che scrive questo utente, tuttavia possiamo notare che dopo quasi quattordici anni la sua affermazione non è mai stata in alcun modo smentita, e troviamo estremamente improbabile che Climati non ne sia mai venuto a conoscenza. D’altronde, a parte l’allusione a questioni sentimentali e al netto dei «ricami» un po’ coloriti, il fatto concreto è stato a più riprese confermato dallo stesso Carlo Climati ed è anche nero su bianco in uno dei suoi libri pubblicato nel 2002:


La memoria corre immediatamente al poliziotto Bruno Zambon, amico e collaboratore degli «anti-sette» di CeSAP e FAVIS, del quale abbiamo evidenziato tempo addietro alcuni aspetti discutibili. Zambon è proprio quell’agente della SAS che si vede chiaramente (malgrado l’irrisorio tentativo di occultarlo) intervistato nella trasmissione di RAI 3 «Presa Diretta» del 24 febbraio scorso, tanto mediocre quanto controversa e contestata. Ecco un breve estratto da quel triste, pessimo esempio di servizio pubblico erogato dalla TV statale:


Sorvoliamo sul vocabolo «magone» (qui il significato corretto), che c’entra nulla con il «mago».

Sorvoliamo anche su come il poliziotto Bruno Zambon possa arrogarsi il diritto di parlare pubblicamente di «problemi della psiche» in un contesto nel quale finisce per avvalorare una linea ideologica palesemente discriminatoria nei confronti di varie minoranze religiose, entrando a gamba tesa in un contesto in cui non ha né competenze né qualifiche.

Non si può invece sorvolare sul fatto che (per sua stessa affermazione!) un rappresentante della Repubblica, presentato come tale e nell’esercizio delle proprie funzioni istituzionali, parli per «stereotipi» e si premuri addirittura di convalidarli, peraltro adoperando concetti banali e scontati, di una superficialità disarmante, che ricordano quella ridicola affermazione sulla «ipnosi che gestiscono gli zingari» fatta da Luciano Madon di AIVS.

Lascia forse ancora più sbalorditi l’uso della parola «nemico» da parte del poliziotto della «Squadra Anti-Sette» che, ad onta del nome, dovrebbe rappresentare uno Stato garante dei diritti dei cittadini: al contrario, a suo parere, i gruppi religiosi che secondo lui vanno classificati come «sette» rappresentano un bersaglio da colpire. Poco importa cosa dice il mondo accademico. Poco importa cosa dicono decine di migliaia di italiani entusiasti di farne parte. Poco importa cosa dicono la Costituzione della Repubblica e le convenzioni internazionali in tema di libertà di credo.

Ma torniamo all’intransigenza del GRIS e al tentativo di demolire tutto ciò che non è conforme a una certa forma mentis tradizionalista e moralizzatrice.

Come abbiamo già ricordato, il poliziotto Bruno Zambon è bassista in un piccolo gruppo rock locale di nome «Kimera», che si pubblicizza anche tramite Internet e che, come si legge sulla relativa pagina Facebook, suona un rock di tenore «decisamente gotico» e influenzato da gruppi come Iron Maiden (di cui sono una «cover band») e Evanescence.


A scanso di equivoci, vogliamo precisare che non abbiamo assolutamente nulla di male né nei confronti del rock, né nei confronti dei musicisti (bassisti inclusi), e nemmeno dell’hard rock. I gusti sono gusti, il rock potrebbe anche non piacere, ma è un fatto universalmente accettato che nella miriade di brani rappresentati da quel tipo di musica si trovano degli autentici capolavori. Per non parlare dei milioni e milioni di persone che apprezzano il genere: tutti «mentalmente manipolati» e indotti all’adorazione di Satana?

Pensiamo a gruppi rock che hanno fatto la storia come i Led Zeppelin, i Queen, gli Eagles per non parlare degli stessi, leggendari Beatles. Secondo Carlo Climati del GRIS, queste band sono responsabili della nascita di quello che egli descrive come «rock satanico». Anche gli Iron Maiden non sfuggono alle sue accuse di essere degli «untori» e di attentare alla moralità dei giovani.

Ci domandiamo quindi perché Carlo Climati non «insorge» contro il poliziotto Bruno Zambon, agente della «Squadra Anti-Sette», quando pubblica foto come questa (lui è il primo da destra, mentre il primo da sinistra è suo figlio):


In tutta franchezza - di nuovo - noi non troviamo nulla di male in questa simpatica foto di gruppo. Carlo Climati, invece, dovrebbe scandalizzarsi per il gesto delle mani, per le ricorrenti immagini della morte, per il teschio stile Iron Maiden alle loro spalle, e per qualche altro dettaglio che lui saprebbe certamente ricondurre al «satanismo».

Discorso simile per quest’altra foto, in cui lo si vede sulla destra intento a suonare:


Come commenterebbe Climati quegli enormi teschi sullo sfondo ed il tatuaggio sul braccio del chitarrista? Per non parlare della sua maglietta che inneggia proprio agli Iron Maiden, tanto «esecrandi» secondo il rappresentante del GRIS!

E chissà se Carlo Climati riterrebbe che il poliziotto Bruno Zambon abbia traviato il proprio stesso figlio inducendolo a truccarsi come si vede in questa foto di tre anni or sono:


E che dire dell’uso di uno scheletro come mascotte del gruppo dei Kimera?


Forse Climati obietterebbe che Zambon è girato dall’altra parte perché non sopporta la vista né dello scheletro né dei tatuaggi del suo chitarrista?

E che dire di questo trucco «conturbante» del poliziotto della SAS, ispirato a un suo idolo?


E i Kiss? Sì, proprio quelli della celeberrima «I was made for loving you»: anche loro da mettere all’indice secondo il GRIS? In tal caso, non lo si dica a Zambon che ha commentato questa foto con un «Tra rocker ci intendiamo!»:


In gennaio 2003, Carlo Climati dalle pagine del sito GRIS dichiarava con sbalorditivo cinismo che i Nirvana (storica band di inizio anni ’90) erano da ritenersi «discutibili» perché il loro frontman (Kurt Cobain) morì suicida:


Non risulta, però, che abbia detto qualcosa di simile un anno e mezzo più tardi quando Cecilia Gatto Trocchi, una esponente «anti-sette» del GRIS con cui Climati aveva collaborato in più occasioni, si tolse la vita lanciandosi nella tromba delle scale del palazzo in cui abitava.

Insomma, fra il serio ed il faceto abbiamo ampiamente documentato come le teorie «anti-sette» (in questo caso di un rappresentante storico del GRIS), estremamente opinabili e discutibili, vengono sfruttate a mo’ di supporto ideologico per osteggiare i movimenti spirituali.

E vi sarebbe anche di più da dire: ad esempio, potremmo citare qualche altisonante affermazione «anti-Led Zeppelin» dell’esponente «anti-sette» Carlo Climati; non escludiamo di integrare in un secondo momento il presente post con qualche sua perla di saggezza in ambito musicale (ci si consenta una punta ironia).

Rimane il fatto che questi sedicenti «esperti» non solo sono privi di qualifiche accademiche in campo religioso, ma non guardano nemmeno in casa propria oppure, se lo fanno, non esercitano la benché minima autocritica.

giovedì 16 agosto 2018

La strage del ranch di Waco: background storico e influenza «anti-sette» sulla genesi del massacro

Ecco il secondo contributo del nostro esperto di questioni estere, Epaminonda, a proposito della tragedia di Waco in Texas (USA) e del massacro di un’ottantina persone (fra cui donne e bambini) facenti parte di una piccola comunità religiosa locale.

In questo post si comincia sul serio a squarciare il velo della propaganda mediatica e a intravedere la reale fonte delle circostanze che hanno condotto a un tanto clamoroso fallimento governativo, una cantonata dalle conseguenze sanguinarie.

Sullo sfondo, di nuovo, degli agitatori «anti-sette» intenti nella loro delinquenziale opera di allarmismo: proprio quegli stessi «anti-sette» che – oggi come allora – hanno venduto e vendono ai mass media una versione del tutto fuorviante della vicenda, interpretandola come una strage dovuta alla «manipolazione mentale» da parte del «guru» di una «setta».

Menzogne: le solite menzogne buone solo a mascherare una verità ben più amara.

martedì 14 agosto 2018

Fake news «anti-sette»: il caso Di Nicola e le bugie contro i Testimoni di Geova

La Congregazione Cristiana dei Testimoni di Geova è senz’altro fra i bersagli preferiti della propaganda allarmistica «anti-sette» non solo (come si potrebbe facilmente dedurre) fra gli estremisti cattolici (o meglio, pseudo-cattolici come i militanti del GRIS) apparentemente animati da una sorta di «timore della concorrenza» del tutto fuori luogo, ma altrettanto da parte di esponenti di associazioni laiche ed apertamente antireligiose come Lorita Tinelli e Luigi Corvaglia del CeSAP, o Maurizio Alessandrini e Sonia Ghinelli del FAVIS, o ancora Toni Occhiello di AIVS. Peraltro, sia CeSAP sia FAVIS si dichiarano referenti della polizia religiosa «SAS» e rappresentano in Italia la FECRIS, controversa organizzazione europea che combatte la spiritualità non convenzionale.

Così, nei confronti dei Testimoni di Geova vi è sovente un fuoco incrociato e di origine trasversale, mascherato da motivazioni speciose e artificiosamente «di pubblica utilità» (cliché frequente presso gli «anti-sette»), che tuttavia è per lo più dovuto alla larga diffusione di questo movimento religioso e alle cospicue nuove adesioni che esso raccoglie.

Ce lo conferma lo stesso GRIS in una «ricerca» di cui apprendiamo da un post su Facebook pubblicato in aprile 2017 da una psicologa (Ornella Minuzzo, di cui abbiamo parlato proprio ieri) che ne pubblicizza l’ideologia:


Peraltro, la psicologa Ornella Minuzzo sembra non sapere nemmeno che il GRIS ha cambiato la propria denominazione a inizio anni 2000, adottando quella di «Gruppo di Ricerca e Informazione Socio-Religiosa», un po’ meno estremista e accademicamente discutibile rispetto all’originaria «Gruppo di Ricerca e Informazione sulle Sette». Ma forse è il caso di soprassedere e di procedere con il tema in questione.

La stima espressa dal GRIS è infatti al ribasso, se paragonata alla cifra recentemente fornita dalla rappresentanza nazionale dei Testimoni di Geova alla RAI, ossia 250.000 fedeli in Italia contro gli 8.500.000 in tutto il mondo.

Ciò detto, le strategie messe in atto dagli «anti-sette» per denigrare ed ostacolare questa minoranza religiosa, ormai da decenni radicata ed integrata nella società civile italiana, sono press’a poco le medesime che vengono impiegate contro tutti gli altri movimenti, anche i più esigui in numero: allarmismo, istigazione alla paura e all’odio, storie più o meno verosimili di ex membri (ovviamente inviperiti e ansiosi di rivalsa) opportunamente ricamate per renderle il più possibile melodrammatiche o strappalacrime, ecc.

Una delle ultime di queste «notizie» (o pseudo-tali) in ordine cronologico è un caso di contrasti familiari che, mentre è stato presentato dai media come una «tragedia provocata dalla setta», ad un più attento esame della situazione si rivela essere uno dei numerosi casi da rubricare alla voce «danni dovuti alla propaganda ‘anti-sette’».

Andiamo con ordine e presentiamo brevemente i fatti, avvenuti fra il 21 e il 30 giugno scorsi.

Con il solito tam-tam mediatico di «notizie» che rimpallano da una testata all’altra e da un sito web all’altro (con gli inevitabili commenti indignati di chi nemmeno legge attentamente i testi), ecco che il «mostro» viene sbattuto in prima pagina per l’ennesima volta:


Frasi forti, che fanno leva su sentimenti profondi, radicati ed antichi come l’amore filiale e la sacralità del focolare: «colpevole di aver scelto di vivere», «i Testimoni di Geova la volevano morta», «una setta che sacrifica vite».

Sorvoliamo pure sull’eventuale valenza criminale di affermazioni tanto evidentemente diffamatorie, perché la malignità di un tale «giornalismo» e la pochezza di siffatte argomentazioni si rivela in tutta la sua meschinità appena un giorno più tardi, quando le figlie di Grazia Di Nicola (la signora la cui «storia» viene raccontata in quegli articoli) invocano il diritto di replica e scrivono ai media per fornire la loro versione dei fatti:
Siamo le tre figlie di Grazia Di Nicola.Siamo rimaste sconcertate dalle informazioni false che abbiamo letto sui giornali; tra l’altro nessun giornalista della vostra redazione si è degnato di contattarci per ascoltare anche la nostra versione dei fatti.Non vogliamo perdere tempo a correggere tutte le informazioni errate incluse nell’articolo; quello che ci preme precisare è che noi abbiamo sempre rispettato -- e rispettiamo -- nostra madre, a prescindere dalle decisioni che ha preso in campo religioso. Il motivo per cui oggi non abitiamo più con nostra madre non è perché l’abbiamo ripudiata. Non ci sogneremmo mai una cosa del genere. In realtà è stata lei a cacciare via di casa una di noi e a indurre le altre due a scappare via. Ci dispiace che i nostri genitori stiano strumentalizzando la situazione per mettere in cattiva luce la nostra religione.Giovanna, Annunziata e Francesca Scaglione
Si rimane a dir poco allibiti (se non disgustati) di fronte al fatto che dei giornalisti abbiano l’ardire di pubblicare dei titoli tanto cruenti senza nemmeno prendersi la briga di verificare i fatti. Ma purtroppo saremmo alquanto ingenui se ignorassimo il fatto che negli ultimi tempi (e soprattutto quando si parla di movimenti religiosi) questa è la regola, piuttosto che l’eccezione.

Ma non è tutto. I più maligni potrebbero infatti sostenere che quella replica sia stata indotta, oppure costruita, o che non sia veritiera, o chissà quali altre costruzioni mentali.

Al contrario, seppure a denti stretti e in mezzo ad altre stucchevoli recriminazioni e sbalorditive provocazioni, la conferma che si tratta della mera verità arriva niente meno che dalla signora Grazia Di Nicola (nota: interpretiamo la parola «affebrati», a noi sconosciuta, come qualcosa di simile a «infervorati» oppure «febbricitanti, comunque riteniamo il senso sia «sconvolti»):


Al di là degli ovvi tentativi di attenuare la gravità della propria condotta, ci troviamo di fronte a una madre che ha sostanzialmente cacciato di casa le proprie figlie perché non volevano abiurare la fede che invece lei e il marito avevano scelto di abbandonare dopo averla praticata essi stessi per anni e dopo averla trasmessa a loro. Una sorta di paradosso!

Addirittura, questi genitori non solo hanno esasperato le loro figlie fino a condurle alla triste decisione di andarsene di casa perché discriminate da coloro che dovevano amarle ed accettare le loro scelte, ma addirittura hanno tramutato la loro storia di conflitto familiare in uno «scoop» mediatico che ha segnato (forse irrimediabilmente?) le vite di tutti loro.

È questo il modello genitoriale proposto dagli psicologi «anti-sette»?

Al di là della retorica del nostro quesito, forse è proprio così: infatti, se si legge con attenzione il commento della Di Nicola, si comprende ancora meglio la delinquenziale falsità delle «fake news» propagate dagli «anti-sette»:


Quindi vi erano «discussioni» già da tempo.

Quindi vi era la percezione di un (presunto) «pericolo» nel fatto di far parte dei TdG.

Tant’è che «si era arrivati a una mancanza di rispetto reciproco», esito che non può certo darsi solo a seguito di un fatto isolato come quello su cui s’imperniano gli articoli.

Va da sé che l’episodio della trasfusione di sangue può solo essere l’ultimo di una concatenazione di eventi che hanno condotto questa sventurata famiglia al contrasto e al litigio, fino alla perdita del rispetto reciproco e addirittura all’odio.

Una tanto grave animosità, una tanto forte conflittualità fra persone dello stesso sangue può forse scaturire da un singolo accadimento, peraltro avvenuto due anni e mezzo prima di questi articoli (gennaio 2016)?

Noi non lo crediamo possibile, e d’altronde la Di Nicola ha già dimostrato con le sue stesse parole (a seguito della replica delle figlie) di non essere del tutto attendibile nelle proprie dichiarazioni.

Crediamo invece che la casalinga di Colliano (SA), dopo aver fortemente insistito con il marito (Franco Scaglione) per portarlo ad abbracciare la fede nei Testimoni di Geova nel 2008 (lo racconta lei stessa nelle dichiarazioni rese alla stampa), abbia in seguito dovuto subire delle pressioni da parte sua. Crediamo che proprio a causa di tale dissenso sia caduta, trascinata dal marito, nella rete di qualche «anti-sette» e si sia imbevuta delle loro tesi propagandistiche, abbia quindi recepito i soliti «consigli» (come quelli di cui si parla proprio nel post sulla psicologa Ornella Minuzzo) mirati a tentare di dissuadere le figlie dalla loro fede. «Consigli» di natura intollerante che ovviamente dividono e separano, piuttosto che armonizzare.

Certo, quelle che abbiamo espresso nel paragrafo antecedente sono solo nostre deduzioni, e tale resta il loro valore.

Ma vi è un altro elemento che vorremmo addurre a supporto delle nostre argomentazioni: la tempistica. Grazia Di Nicola ha cominciato a raccontare alla stampa la propria «storia» già in ottobre del 2016, con un exploit sui media locali del salernitano. Proprio a quel periodo risalgono i suoi contatti con Lorita Tinelli del CeSAP e Sonia Ghinelli del FAVIS. In marzo del 2017, quindi ben oltre un anno prima dell’ondata mediatica a cui abbiamo assistito nel giugno scorso, la Di Nicola ha addirittura tentato di imbastire una petizione online al Presidente della Repubblica:


Dunque perché tornare ancora alla ribalta qualche settimana fa? Perché esacerbare una storia già tanto triste, al punto da suscitare la reazione delle sue figlie che fino a quel momento avevano mantenuto un rispettoso silenzio persino davanti alle cattiverie strombazzate dalla madre ai quattro venti sul loro conto e sul conto della loro congregazione? A che pro?

Ma ciò che lascia ancor più sgomenti è la falsità stessa dell’argomentazione su cui è imperniato il cancan di quegli ultimi articoli, ossia: è una menzogna che le figlie abbiano abbandonato la madre a seguito della trasfusione, e a specificarlo è proprio la casalinga di Colliano (SA) in questa intervista del 19 ottobre 2016, di cui proponiamo qui di seguito un breve stralcio.

La Di Nicola ha spiegato in dettaglio come abbia lei per prima deciso di abbandonare i Testimoni di Geova diversi mesi dopo l’episodio della trasfusione, per il semplice fatto che non voleva più accettare quella fede e le pratiche religiose ad essa collegate. Una scelta innegabilmente legittima e indiscutibile, ma perché ha voluto obbligare altri a seguirla?


Ci domandiamo come si possa tanto candidamente sorprendersi per il disappunto delle proprie figlie quando, dopo anni di adesione ad un credo, di punto in bianco si va in TV a dirne peste e corna mettendo in piazza fatti privati e questioni familiari che si dovrebbero risolvere parlando con i propri cari. Forse qualcuno l’ha indotta a fare ciò? Magari proprio qualche «anti-sette»? Se la Di Nicola un giorno avrà l’onestà intellettuale di rivelarlo, allora sì che sarà stata fatta davvero chiarezza.

Ma non solo: il racconto della Di Nicola, fra l’altro, dimostra la falsità delle storie allarmistiche sulle trasfusioni di sangue, nelle quali viene sempre sistematicamente omesso il fatto che al Testimone di Geova viene prestata assistenza qualificata dalla congregazione affinché si individui una terapia alternativa sotto l’opportuna supervisione medica.

Ci domandiamo dunque: era davvero necessario rovinare la propria famiglia, in conseguenza della propria scelta di abbandonare una data fede?

Probabilmente no; ma se anche non era necessario, è stato consequenziale alle attività tipiche degli «anti-sette».

E pensare che solo pochi anni fa la signora Grazia Di Nicola diffondeva messaggi come questo:


Ecco, quindi, un’ennesima dimostrazione di come la propaganda «anti-sette» sconvolge intere famiglie, semina allarmismo e genera divisione e conflittualità.

lunedì 13 agosto 2018

Gli «anti-sette» e l’illegalità: il «dossieraggio» e l’interferenza nella vita privata

di Mario Casini


Già in precedenza abbiamo documentato dei chiari indizi dell’attività di «dossieraggio» posta in essere da taluni esponenti «anti-sette», in particolare Toni Occhiello, esponente di AIVS, ultima nata fra le associazioni «anti-sette» italiane e spalleggiata da Lorita Tinelli del CeSAP (sigla che non solo si dichiara referente della polizia religiosa «SAS», ma è anche una consociata della FECRIS, la controversa ONG europea che combatte la spiritualità non convenzionale).

Quasi per caso, navigando qua e là al rientro dalle ferie, mi sono imbattuto in una breve serie di post pubblicati fra aprile e maggio 2017 sulla pagina Facebook di una collega proprio di Lorita Tinelli, la psicologa Ornella Minuzzo di Marostica (VI), già candidata vicesindaco del blasonato comune vicentino alle ultime elezioni:


Il post inneggia al GRIS, gruppo cattolico estremista presente nelle principali curie su tutto il territorio nazionale che combatte la religiosità «alternativa», e lo presenta come «unica associazione impegnata in questo campo» (addirittura), il che già di per sé denota un’evidente inesperienza nel settore dal momento che di organizzazioni di rilievo nazionale attive nel contrasto ai nuovi movimenti religiosi ve n’è almeno tre o quattro, e si conoscono reciprocamente.

Ma ecco l’esordio del post in questione, datato 15 maggio 2017:


La prima cosa che ho notato è – di nuovo – l’incursione del tutto indebita di una psicologa in un campo di conoscenze vasto e specialistico come quello della religione, della sociologia e della spiritualità, superficialmente impacchettato ed etichettato con la nomea stigmatizzante di «culti distruttivi», facile ghetto dialettico ben studiato per incasellare sin da subito intere comunità confessionali in un loculo nel quale possano essere più agevolmente prese di mira dalle tirate denigratorie. Inoltre – di nuovo, e malignamente – all’ambito della spiritualità viene associato il fumoso, vago concetto di «manipolazione mentale»; concetto che, come si è documentato precedentemente in questo blog, riporta a teorie ampiamente screditate (vedere qui e qui) in ambito accademico la cui citazione oramai, per gli «anti-sette», è diventata una sorta di autogol.

Proseguendo nella lettura e facendomi largo fra il coacervo dei soliti anatemi propagandistici, pregiudizi allarmistici e generalizzazioni superficiali, ho potuto scorgere una sezione – se possibile – ancora più inquietante perché mostra in maniera quanto mai evidente come l’ideologia «anti-sette» militante induca davvero all’ostilità nei confronti di coloro che possano essere in qualche maniera classificati come «sospetti» o «ambigui».

L’intero post di Ornella Minuzzo è piuttosto corposo ed articolato e meriterebbe senz’altro un approfondimento assieme agli altri tre della sequela, tuttavia in questo mio contributo vorrei concentrarmi solamente su un singolo aspetto e rimandare a più avanti la critica puntuale delle rimanenti sezioni, che da un lato sfiorano il grottesco per la loro incoerenza e dall’altro suscitano persino qualche sorriso (per quanto amaro).

Prendo quindi in considerazione questo interessante passo, di cui sottolineo qualche riga:


Proviamo a ripassare un momento il significato del vocabolo «dossieraggio» citando un dizionario autorevole: «attività di raccolta di informazioni riservate e scottanti su personaggi in vista, da usare in genere a fini di ricatto».

Si potrebbe questionare sulla finalità di ricatto, apparentemente non esplicitata nel post della Minuzzo, ma non la si potrebbe escludere dato che già lo spauracchio della querela può risultare relativamente intimidatorio, specie nei confronti di chi sta soltanto cercando di professare il proprio credo proclamandolo ampiamente e coinvolgendo più persone possibile.

Anche al netto dell’eventualità che il «personaggio» vittima della «raccolta di informazioni riservate e scottanti» sia particolarmente «in vista», rimane il fatto che la Minuzzo esorta a tenere traccia scritta ed accurata di quelle informazioni che afferiscono a tutti gli effetti ad ambiti personali e affatto privati.

Condotta, quella caldeggiata dalla psicologa vicentina, che ricorda anche un’altra fattispecie di reato descritta dal codice penale, la «interferenza illecita nella vita privata» (art. 615 bis), che così recita: «chiunque, mediante l'uso di strumenti di ripresa visiva o sonora, si procura indebitamente notizie o immagini attinenti alla vita privata svolgentesi nei luoghi indicati nell'articolo 614, è punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni».

Il 615 bis prevede anche: «alla stessa pena soggiace, salvo che il fatto costituisca più grave reato, chi rivela o diffonde, mediante qualsiasi mezzo di informazione al pubblico, le notizie o le immagini ottenute nei modi indicati nella prima parte di questo articolo». Il che è esattamente quanto Ornella Minuzzo consiglia di fare a genitori e parenti di persone che abbiano fatto una scelta religiosa ritenuta «discutibile»: ossia passare le informazioni (personali e riservate) ai mass media così che si possa «informare» la massa su questioni del tutto private, con nomi e cognomi.

In parole povere, la psicologa pensa che se un papà e una mamma sono preoccupati – dopo aver visto in TV l’ennesima, roboante trasmissione in cui si grida all’allarme contro le «sette» – perché un loro figlio ha appena abbracciato la fede buddista Soka Gakkai (o ha deciso di trascorrere una settimana presso la comunità Damanhur, o sta leggendo libri di Osho Rajneesh o segue regolarmente degli incontri di Scientology), la soluzione sta nel fare in modo che loro si fingano gentili e amorevoli, spillino più informazioni possibile al ragazzo sul gruppo di cui fa parte, le tengano registrate per benino, corredino il tutto con qualche opuscolo o volantino della congregazione, confezionino per bene il «resoconto» facendosi aiutare dal GRIS o da qualche altra associazione «anti-sette», e alla fine corrano a spifferare l’intera storia a qualche giornalista per uno splendido «scoop».

Un rimedio collaudato? Chissà, forse per le tasche del giornalista e per la popolarità dell’esponente «anti-sette» di turno. Ma – io credo – non certo per la disarmonia di quella famiglia e per la conflittualità fra genitori e figli.

Lasciatemelo dire chiaro e tondo: queste metodologie da delatore non sono soltanto palesemente immorali, sono anche ai limiti del lecito (secondo i succitati riferimenti normativi) e sono un invito alla devastazione dei rapporti fra familiari. E di casi concreti in cui ciò è avvenuto ve n’è a iosa, purtroppo.

Mi auguro che la psicologa Ornella Minuzzo sia sufficientemente indaffarata nel risolvere i problemi psicologici della sua clientela, piuttosto che nell’istigare tumulti nelle famiglie di chi abbraccia una fede non tradizionale… proprio lei, che come candidata vicesindaco avrebbe assunto le deleghe alla cultura e ai servizi sociali!

venerdì 10 agosto 2018

I danni degli «anti-sette»: come rischiare di rovinare una vita con l’allarmismo ingiustificato

[post aggiornato il 11/08/2018 alle ore 20:11]

Nel nostro blog abbiamo documentato in numerose occasioni i danni e le conseguenze della propaganda allarmistica «anti-sette»: intere esistenze letteralmente rovinate dalla paranoia sociale indotta da associazioni e gruppi militanti (CeSAP, FAVIS, GRIS o AIVS) contro le nuove religiosità, vite irrimediabilmente segnate dall’odierna inquisizione da parte di figure discutibili come don Aldo Buonaiuto, dispendio di denaro pubblico per processi infondati, molestie sul piano legale (come le innumerevoli querele della psicologa Lorita Tinelli nei confronti dei suoi presunti avversari), e via discorrendo.

Alcuni mesi fa, nel nord Italia (per la precisione, nel bresciano), si è verificato un fatto di cronaca alquanto peculiare; curiosamente, proprio in quello stesso territorio che ha dato vita ad almeno due eclatanti vicende precedenti di persecuzione giudiziaria ai danni di associazioni di natura religiosa: il caso di Fiorella Tersilla Tanghetti e quello della Comunità Shalom.

In una piccola scuola situata in una zona collinare-campagnola nella provincia di Brescia (la località si chiama Mocasina, di fatto una frazione del già modesto comune di Calvagese della Riviera, 3.569 abitanti) un laboratorio multiculturale realizzato per una prima elementare è stato strumentalizzato a fini politici, nel solco dell’ideologia «anti-sette» che vorrebbe escludere tutto ciò che paia discostarsi da presunti valori tradizionali.

Un’esperta educatrice ed apprezzata scrittrice, la bergamasca Ramona Parenzan, è stata presa di mira e tacciata di «stregoneria», quando di fatto aveva semplicemente «osato» coinvolgere i bambini in un gioco di fantasia ispirato alle fiabe (quelle, sì – ce lo si lasci aggiungere – retaggio di una tradizione millenaria) nel quale si è adoperato del tè verde a mo’ di «pozione magica», una conchiglia a mo’ di «amuleto» portafortuna e dei simboli («cuoricini» e «stelline») a corredo della storia che veniva raccontata:


A dei genitori dotati di una qualche cultura verrebbero senz’altro in mente le favole di Esopo prima (nell’antica Grecia) e di Fedro poi (nella Roma imperiale), gli intramontabili racconti di Hans Christian Andersen, le «carte» di caratterizzazione di Vladimir Jakovlevič Propp, la splendida opera pedagogica di Gianni Rodari, le narrazioni visionarie di Italo Calvino (emblematica a tal proposito la celeberrima trilogia del Visconte Dimezzato / Barone Rampante / Cavaliere Inesistente, costellata di metafore). Si potrebbe comporre un intero trattato sulle risorse letterarie per l’educazione infantile e del simbolismo che vi è spesso contenuto. Per non parlare del valore esemplificativo e propedeutico di numerose parabole descritte nei testi sacri, dalla Bibbia nell’occidente al Mahabharata in India sino alla saga mesopotamica di Gilgamesh.


Ma l’iniziativa della Parenzan, in arte «strega Romilda», si è rivelata un’eresia imperdonabile: quando una sola (andrebbe sottolineato: una sola) fra le mamme dei bambini si è inalberata per quell’attività extracurricolare che ha stimolato l’immaginazione e la socializzazione dei piccoli in un contesto differente da quello della consueta lezione, Simone Pillon, un parlamentare eletto a Brescia e noto per la sua intransigenza cattolica (quella che noi abbiamo definito estremismo pseudo-cattolico) ha visto l’occasione per creare un caso mediatico e politico:


Si notino i toni adoperati dal senatore Pillon: «Vogliamo insegnare ai nostri bambini l’italiano, la matematica, l’arte, la musica e lasciar perdere queste porcherie? Appena insediato farò una
interrogazione parlamentare su questa vergognosa vicenda, perché è la Costituzione a garantire il diritto dei genitori, e solo dei genitori, a educare i propri figli». Addirittura un’interrogazione parlamentare, prima ancora di aver appurato la situazione ed essersi informato: proclami altisonanti e pronunciati con sussiego, ma destituiti di qualsiasi fondamento.


È sempre la medesima prassi, creare un «mostro» dal nulla e sbatterlo in prima pagina, esagerando dei fatti tutto sommato innocui (o, tutt’al più, solo marginalmente discutibili) per trasformarli in una (inesistente) «emergenza», insinuando dubbi e diffidenza, generando allarme sociale, istigando all’odio.

Le conseguenze? Per fortuna i toni si sono smorzati velocemente, ma nel frattempo la «strega Romilda» ha dovuto proteggere se stessa dalle reazioni inviperite e preoccupanti dei soliti «leoni da tastiera» che si fanno condizionare dalla propaganda «anti-sette»:


Alla educatrice bergamasca, comunque, non sono affatto mancate attestazioni di solidarietà, in effetti in numero ben superiore rispetto alle manifestazioni di intolleranza istigate dal senatore estremista e dalla macchina del fango mediatica:


Della situazione ha parlato in dettaglio, alcuni giorni dopo lo scoppio della polemica, la scrittrice Roberta De Tomi, mettendo correttamente in luce le lacune dell’etica giornalistica in situazioni come queste:


Ecco quanto è facile danneggiare la vita altrui, nel ventunesimo secolo, sfruttando la credulità popolare e portando avanti una propaganda allarmistica consolidata e costruita ad arte per mettere nel mirino fenomeni religiosi, spirituali o anche soltanto (come in questo caso) culturali.

Forse il senatore Pillon ha sentito l’influenza di una storia triste quanto antica che a tutt’oggi viene ricordata (anche in maniera plateale) nel bresciano, come testimonia un fatto di cronaca locale riferito dai media nell’aprile dell’anno scorso:


Ci riferiamo al rogo di Benvegnuda Pincinella, una donna fiera e indipendente che fu accusata di stregoneria e bruciata viva nella pubblica piazza proprio a Brescia nell’estate del 1518, esattamente 500 anni prima dell’increscioso episodio che abbiamo raccontato in questo post. E non fu, purtroppo, un episodio isolato.

In quel periodo, mentre gli anni più bui dell’inquisizione erano ormai solo un doloroso ricordo destinato a rimanere una macchia indelebile nella storia della Chiesa, al nord imperversavano le tesi di Martin Lutero e lo scisma riformista stava scuotendo la Roma apostolica fino alle fondamenta; parroci di provincia disobbedivano, il dubbio serpeggiava fra le fila del clero, frotte di fedeli passavano al protestantesimo o tornavano alle tradizioni animistiche delle campagne contadine. E l’Urbe era cosìì lontana dall’arco alpino...

Pincinella venne accusata, tra le altre, cose di libertinaggio e di aver fatto becco il marito. In realtà queste cose accadevano caso mai quando era giovane (era nata nel 1455 circa), mentre il suo arresto, tortura e rogo avvennero quando aveva sessant’anni. Restò vittima di un’esecuzione capitale che doveva evidentemente essere «esemplare» e da «monito» per tutta la «cristianità», perché il popolo «lasciasse perdere le porcherie» che ella praticava.

È forse questo il genere di «valori etici» che mirano a restaurare gli «anti-sette»?