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giovedì 27 dicembre 2018

Pseudoscienza «anti-sette»: propaganda sul «reato di plagio» e cifre contraddittorie

Da alcuni mesi, con un’intensità asfissiante, ha ripreso la roboante propaganda mediatica contro la spiritualità «alternativa», astutamente e subdolamente ridefinita con la solita terminologia allarmistica («sette», «culti distruttivi», «gruppi abusanti»). Tale campagna sta proseguendo dall’inizio di novembre con la pubblicità martellante di «Nella Setta», il libro dei due giornalisti «anti-sette» Flavia Piccinni e Carmine Gazzanni sostenuto a spada tratta dalle (solite) CeSAP, FAVIS, AIVS, le controverse associazioni impegnate nella loro guerra personale ai nuovi movimenti religiosi e consulenti (assieme a don Aldo Buonaiuto) della «polizia religiosa» SAS (la «Squadra Anti-Sette» del Ministero dell’Interno) oltre che referenti italiane della discussa organizzazione europea FECRIS.

Lo scopo di costoro, a parte l’ovvio ritorno economico dalle vendite del libro, è far ripristinare l’incostituzionale «reato di plagio» (di epoca fascista) alias «manipolazione mentale», con l’evidente obiettivo di attirare business alle attività private degli psicologi coinvolti plasmando a proprio uso e consumo la categoria della «vittima di plagio mentale» così da poter poi essere «titolati» a somministrare trattamenti e terapie, a fornire consulenze, a gestire centri di ascolto, ecc., il tutto possibilmente finanziato dallo Stato. Un giro d’affari che è già consistente oggigiorno e potrebbe diventare alquanto considerevole in futuro a patto che, data la lampante pochezza delle basi su cui si fonda, venga reso «credibile» agli occhi di politici e amministratori della cosa pubblica.

In due paragrafi abbiamo così condensato una spiegazione chiara e difficilmente confutabile della vera ragione alla base della propaganda mediatica contro la spiritualità «alternativa». Forse qualcuno la criticherà quale sintesi un po’ troppo semplicistica, date la quantità e la qualità dei fattori in gioco nell’equazione. Eppure, vi è una marea di elementi a supporto di tale ragionamento (la gran parte dei quali abbiamo sottolineato e raccontato nel nostro blog a mano a mano che li raccoglievamo); tant’è che più si osserva tale scenario, più se ne colgono conferme.

Insomma, la nostra più che un’ipotesi è una semplice rilevazione e lettura dei fatti; prova ne è che gli «anti-sette», quando vengono sollecitati a fornire delle spiegazioni o a rispondere a chi li critica, raramente entrano nel merito e (se mai lo fanno) non portano argomentazioni concrete preferendo spostare altrove la discussione; ben più frequentemente si lanciano in invettive, attacchi ad hominem ed intimidazioni, comportandosi esattamente secondo le modalità di un «settarismo» che essi attribuiscono proprio ai movimenti di cui sostengono di «denunciare gli abusi».

La tanto strombazzata «emergenza sette» altro non è se non un allarmismo voluto e organizzato (di fatto al limite del «procurato allarme»), condotto sempre dallo stesso gruppo di individui, che sta fuorviando un’istituzione della Repubblica (la «Squadra Anti-Sette») ponendola ai margini della Costituzione. Ciò produce profitto per gli esponenti «anti-sette» in termini di clienti per le loro attività professionali, di visibilità mediatica e reputazione, di compensi per partecipare a trasmissioni in qualità di presunti «esperti», di conoscenze altolocate, ecc.

Vantaggi e guadagni che vengono realizzati grazie a mistificazioni e menzogne, oltre che su veri e propri abusi perpetrati ai danni di individui e movimenti.

Osservando con attenzione le ultime uscite degli «anti-sette» sui media, in particolare per la réclame di «Nella Setta», si osservano le clamorose incongruenze delle grottesche teorie sulla base delle quali costoro dovrebbero ricevere finanziamenti pubblici e credito da parte dello Stato.

Come abbiamo detto poc’anzi e come abbiamo relazionato in diversi post precedenti, l’operato degli «anti-sette» non ha solo condotto in errore più di un magistrato finendo per mettere ingiustamente alla gogna un gran numero di cittadini con processi farsa e assoluzioni giunte troppo tardi (quando ormai i malcapitati erano stati massacrati dalla macchina del fango); le loro campagne mediatiche sono state e sono tutt’oggi fuorvianti per la Polizia di Stato.

Sentiamo ad esempio cosa si lascia sfuggire Alfredo Fabbrocini, un agente della «Squadra Anti-Sette» che ultimamente è apparso più volte in TV al fianco di Flavia Piccinni e di don Aldo Buonaiuto, qui a «Sky TG 24» il 13 dicembre scorso:


In un passaggio al minuto 10’26”, il poliziotto Fabbrocini afferma chiaramente che «le attività investigative non sono tantissime sull’argomento»! Questo è già un indizio quanto mai evidente che non esiste alcun «allarme sette» e che è necessario un continuo battere di grancassa sull’argomento perché qualcuno possa cominciare a crederci.

Ci si aspetterebbero delle statistiche precise, comprovate e documentate, visto che si sta cercando di influenzare l'esistenza di movimenti religiosi e di leader spirituali che raccolgono centinaia di migliaia di fedeli in tutto il paese. Al contrario, senza alcun rispetto per le credenze di quei cittadini, gli «anti-sette» e giornalisti compiacenti sparano cifre a mo’ di «Lascia o raddoppia?», come in questo spezzone della trasmissione «Siamo Noi» andata in onda su TV2000 il 9 novembre scorso proprio per favorire il lancio sul mercato del libro «Nella Setta»:


Restiamo allibiti di fronte a quel «(…) quindi facciamo almeno per due, diciamo… a occhio» di Massimiliano Niccoli: ma sì, che importa se queste cifre poi vengono adoperate per mandare al rogo qualche nostro concittadino? Raddoppiamo, e «allegria, amici ascoltatori»!

Stendiamo un pietoso velo sul pressappochismo e la becera superficialità di certi fanfaroni, e cogliamo il fatto ovvio e inconfutabile dietro alla cortina fumogena: il (presunto) dato statistico è ancora quello delle «cinquecento sette», una cifra completamente autoreferenziale messa in dubbio persino da chi l’ha propinata ripetutamente sui media nazionali di mezza Italia fino a quando non è diventata il dato «di riferimento».


Di questa clamorosa ammissione di incompetenza abbiamo parlato in uno dei post dedicati allo strabiliante webinar tenuto dalla psicologa «anti-sette» Lorita Tinelli, sottolineandone il paradosso.

In quello stralcio, la Tinelli dice chiaramente che le statistiche accampate dal suo «centro studi» sono basate sulle «richieste di aiuto» che essi asseriscono di ricevere (di nuovo, totale autoreferenzialità).

Teniamo conto che don Aldo Buonaiuto, in ottobre 2016, aveva affermato di non essere in grado di quantificare il fenomeno:


Eppure lo stesso don Buonaiuto, nell’inquietante convegno tenutosi a Roma il 9 novembre scorso (preludio alla campagna pubblicitaria di «Nella Setta») ha fornito dei numeri completamente discrepanti: (testuali parole, dal minuto 1h50m55s della registrazione) ha detto  di aver «incontrato e parlato con oltre quattordicimila persone dal 2002 a oggi» tramite il suo «numero verde anti sette» e di averne «incontrate solo quest’anno 1.403»(millequattrocentotré). Cifre, queste, confermate più di recente nella succitata trasmissione di TV2000 al fianco di Flavia Piccinni. Naturalmente, Buonaiuto non fornisce alcun dettaglio per chiarire di che genere di «incontri» si tratti e di cosa abbia «sentito» nelle telefonate che li avevano preceduti. Quando lo aveva fatto (undici anni or sono), era risultato completamente inattendibile.

Ma restiamo ancora più sbalorditi di fronte alla cifra dichiarata dal prete inquisitore, che in quel convegno sostiene addirittura di essere «arrivato ad individuare circa 8 mila gruppi in Italia, più o meno organizzati».

E di che gruppi stiamo parlando? Quale genere di associazionismo (diritto costituzionalmente garantito) gli «anti-sette» stanno chiedendo alla Polizia di Stato di prendere di mira con tale «stigma»? Sentiamolo direttamente dalle parole del vicequestore aggiunto Alfredo Fabbrocini:


Dunque, stando alla definizione di questo rappresentante della «Squadra Anti-Sette», si deve considerare «setta» una «organizzazione che si [ri]unisce per motivi che possono essere religiosi filosofici». Il che, probabilmente, congloba diversi milioni di cittadini devoti di questa o quella religione o corrente spirituale.

Siamo così di fronte a una drammatica, inquietante deriva liberticida della Repubblica, propiziata da qualche piccolo gruppo di militanti e fomentata dai racconti sensazionalistici di alcuni apostati «ben» selezionati: gli stessi che qua e là hanno espressamente parlato di «guerra alle sette» e comunque la conducono di fatto, gli stessi che fanno l’occhiolino alle politiche repressive violente attualmente in atto in Cina, gli stessi che diffondono intolleranza e «fake news» dai loro profili Facebook e dai loro siti Internet.

Cui prodest?

La risposta la forniscono loro stessi, gli «anti-sette»: i giornalisti Flavia Piccinni e Carmine Gazzanni (suo stretto collaboratore nonché fidanzato, sebbene essi curiosamente non rivelino mai tale «segreto di Pulcinella») cavalcano il fenomeno commerciale del loro libro così come aveva fatto esattamente un anno prima la soubrette Michelle Hunziker, dei profittatori come Mauro Garbuglia si fanno réclame e aprono nuove attività, mentre uno psicologo quale Luigi Corvaglia porta acqua al proprio mulino e si promuove come consulente o analista per le presunte «vittime»:



Pertanto, quando sosteniamo che si tratta di un business artefatto e costruito alle spalle di persone innocenti sfruttando la credulità popolare tendenzialmente sospettosa nei confronti del «diverso», lo facciamo perché sono gli stessi «anti-sette» a fornirci elementi e prove cogenti di ciò.

A tal punto si spinge la sete di denaro o di potere di costoro?

mercoledì 21 novembre 2018

La devastanti conseguenze della propaganda «anti-sette»: ultime conferme

Poco meno di un anno fa (in questo post), notando un’incongruenza nelle affermazioni di Sonia Ghinelli (esponente «anti-sette» della controversa FAVIS, associazione riminese corrispondente della discussa sigla europea FECRIS) avevamo messo in luce come l’ideologia estremista «anti-sette» fosse inestricabilmente legata a quella terribile vicenda dei venti bambini strappati alle famiglie nel modenese, tornata alla ribalta proprio in quel periodo (fra ottobre e dicembre 2017). Un’inchiesta di Pablo Trincia e Alessia Rafanelli aveva scoperchiato un pentolone stracolmo di marciume.

Qualche giorno fa, questo articolo di «ReggioOnline» porta alla luce ulteriori testimonianze che confermano quell’inchiesta giornalistica e coronano anni di ricerche:


Accuse che ricordano il tenore e i contenuti della visionaria relazione scritta a carico degli inesistenti «Angeli di Sodoma» da don Aldo Buonaiuto, il prete inquisitore referente della «polizia religiosa» SAS (la «Squadra Anti-Sette» del Ministero dell’Interno), della quale abbiamo nuovamente parlato proprio nell’ultimo post, l'altroieri.

Accuse che ricordano, in realtà, la stessa aura di allarmismo e mistero che circonda tutti i casi in cui degli innocenti vengono presi di mira in quanto «setta religiosa» per essere poi sottoposti a un massacro mediatico e/o a una persecuzione giudiziaria; si pensi solo al caso di «Ananda Assisi» o a uno dei molti altri trattati nel nostro blog.

Ecco a quali accuse dovettero sottostare i genitori di quei bambini emiliani e le altre persone coinvolte nell’indagine della magistratura, istigata da alcuni «esperti», fra cui la psicologa Valeria Donati:


Non vogliamo aggiungere nulla al lavoro già svolto sul caso dai giornalisti Pablo Trincia e Alessia Rafanelli, ci limitiamo soltanto a sottolineare un aspetto che emerge, inquietante se non addirittura raccapricciante, a mano a mano che i testimoni di quel «rapimento di stato» si fanno avanti.

In una parola: il lucro.


Lo stesso movente che a nostro parere spinge gli «anti-sette» a continuare incessantemente nella loro opera denigratoria nei confronti dei movimenti religiosi «non convenzionali», come abbiamo ipotizzato in più occasioni (qualche esempio: qui, qui e qui)

Qualcuno potrà obiettare che la SAS vent’anni fa non esisteva ancora e lo stesso vale per il CeSAP di Lorita Tinelli e per altri militanti oggi attivi. Certamente è così. Tuttavia il 1998 è proprio l’anno del famigerato e controverso rapporto del Ministero dell’Interno dal titolo «Sette religiose e movimenti magici in Italia», un documento controverso, criticato anche dal mondo accademico oltre che confutato in sede giudiziaria, eppure  a tutt’oggi il più citato come riferimento cardine dalle associazioni «anti-sette».

Inoltre, specularmente identica è la linea ideologica «anti-sette» portata avanti, in quel caso, per indagare i presunti abusi che sarebbero avvenuti tra Massa Finalese e Mirandola: le pressioni alle «vittime», il battage mediatico e i secondi fini utilitaristici degli «esperti».

Tanto più che il controverso CISMAI (un centro studi che all’epoca fu fra i principali sostenitori della veridicità degli abusi) collabora col CeSAP e viene portato sugli allori da Sonia Ghinelli di FAVIS, come mostra (uno su tutti) questo post di settembre 2016:


Famiglie distrutte e vite rovinate: questi sono i veri abusi dovuti alla propaganda «anti-sette».

sabato 3 novembre 2018

Gli «anti-sette» e la violenza: «Mi volevano salvare, mi hanno torturato»

Abbiamo esemplificato già numerose volte in precedenza, da questo blog, quale grado di incoerenza possano raggiungere taluni esponenti «anti-sette»: per esempio, allorquando danno a vedere di voler difendere i diritti di certe minoranze come gli omosessuali o LGBT salvo poi portare sugli allori chi invece non ha mai rinnegato pratiche violente come la «deprogrammazione». Oppure quando da un lato disapprovano con enfasi (e peraltro giustamente) lo «stigma» a cui talora vengono sottoposti i gay, e poi dall’altro avallano o conducono in proprio una campagna per ghettizzare movimenti religiosi da loro considerati «non convenzionali» oppure pratiche e credenze che si discostano dalla tradizione locale.

Questo in particolare è il paradosso sovente espresso da Sonia Ghinelli di FAVIS, chiacchierata associazione «anti-sette» con sede a Rimini che, a dispetto delle sue molteplici contraddizioni e delle clamorose smentite di cui è stata oggetto, risulta essere a tutt’oggi referente della «polizia religiosa» SAS (la «Squadra Anti-Sette» del Ministero dell’Interno) nonché federata alla controversa sigla europea FECRIS.

Qualche giorno fa abbiamo notato nuovamente quella tipica antinomia di Sonia Ghinelli, in questo post (pubblicato, come sempre in incognito, dal suo anonimo profilo «Ethan Garbo Saint Germain»):


Nell’articolo richiamato dal post di Sonia Ghinelli, si legge:

Il concetto base (…) è che l’omosessualità è un vizio, una malattia: l’obiettivo è la guarigione. Se questa non avviene, allora «meglio il suicidio».

Per inciso: un asserto, questo, che ricorda un po’ il velato raffronto cui sembrava alludere Luigi Corvaglia fra le credenze «alternative» e la tossicodipendenza, del quale abbiamo parlato in uno dei nostri ultimi post.

Negli anni ’50 e ’60 la terapia di conversione consisteva spesso in elettroshock, terapia dell’avversione (dove certi stimoli vengono abbinati a sensazioni disgustose o di paura) e lobotomia.

Oggi le torture fisiche sono state sostituite da quelle psicologiche. Alla LIA, per esempio, è comune la pratica del finto funerale ovvero la messa in scena della morte di uno dei partecipanti, sdraiato in una bara e con intorno candele accese, mentre i compagni leggono il suo epitaffio raccontando la sua discesa nell’Hiv e poi nell’Aids.

Ma questi sono esattamente i metodi coercitivi usati da certi «anti-sette» come Rick Ross (esponente dell’ormai defunto CAN di cui abbiamo parlato nella serie di contributi di Epaminonda sulla strage di Waco), o dalla (fu) AFF, American Family Foundation, in seguito evolutasi e sotto la nuova denominazione di ICSA.

E chi collaborava intensamente con l’AFF negli anni ’90 dello scorso secolo? Una figura fra le molte: Janja Lalich, la sociologa amica di Lorita Tinelli del CeSAP, sostenitrice della controversa teoria del «lavaggio del cervello» e ritenuta un modello di riferimento proprio dalla Ghinelli.

Addirittura in una recentissima intervista la Lalich ricorda quella metodologia e, pur precisando che è stata «screditata» anche perché «il rapimento è un atto illecito», non manca di specificare che «spesso funzionava» e non ne prende realmente le distanze come razionalmente ci si aspetterebbe. Esattamente come faceva già verso la fine degli anni 1990, quando cercava di differenziarsi da quelle pratiche che il più delle volte si trasformavano in gravi abusi, sostenendo che la sua attività attuale non andava definita «deprogrammazione» ma piuttosto «educazione».

In the 1960s, ’70s and ’80s, families often hired so-called deprogrammers to kidnap and hold cult members against their will. While that often worked, abduction is illegal, and the technique was discredited after a Washington man successfully sued his deprogrammer in 1995.

Negli anni 1960, ’70 e ’80, spesso le famiglie ingaggiavano dei cosiddetti deprogrammatori per rapire e segregare i membri delle sette. Sebbene ciò spesso funzionasse, il sequestro di persona è illegale e quella tecnica fu screditata dopo che nel 1995 un cittadino di Washington vinse in tribunale contro l’uomo che l’aveva deprogrammato.


Quindi Sonia Ghinelli con una mano sostiene di difendere i diritti di una minoranza come quella LGBT, con l’altra mano appoggia i deprogrammatori e i loro abusi.

Quasi stupisce che Maurizio Alessandrini, avendo da vent’anni come mentore una Ghinelli che approva le metodologie degli estremisti «anti-sette» americani, non abbia tentato anche lui di far segregare e «deprogrammare» il figlio Fabio, magari rivolgendosi proprio a qualcuno di quei sedicenti «esperti».

Per quanto è dato sapere, fortunatamente non è mai accaduto nulla del genere; inoltre, in Italia non si registrano da almeno trent’anni casi di «rieducazione» violenta ai danni di devoti di movimenti religiosi alternativi.

L’ideologia intollerante e discriminatoria, però, a quanto pare è dura a morire.

venerdì 22 giugno 2018

Contributo esterno: la vera storia del «Tempio del Popolo» (quale «lavaggio del cervello»?)

Prosegue la serie di Epaminonda sulla strage del «Peoples Temple» («Tempio del Popolo»), che gli «anti-sette» tuttora tentano di far credere sia stato un «suicidio di massa» grazie al megafono dei mass media compiacenti.

La verità, invece, è ben più difficile da digerire.

Eccone un altro risvolto; anche questa volta, una lettura per stomaci forti.

Prossimamente prenderemo di mira un’altra delle tristi «fole» portate avanti da costoro.


lunedì 15 gennaio 2018

Coercitivi, ma con Garbo

Pubblichiamo qui integralmente una riflessione pervenuta da uno dei nostri lettori più affezionati, che descrive bene l’operato degli «anti-sette» per quanto concerne il loro modo perverso e fuorviante di «fare informazione».


domenica 14 gennaio 2018

Aggiornamento breve - gli «anti-sette» si contraddicono anche all’estero

Non sapremmo dire se sono gli «anti-sette» italiani che hanno preso esempio da quelli americani o viceversa.

Tuttavia, alcune notizie apprese nei giorni scorsi confermano appieno la tesi già ampiamente esposta e documentata da questo blog, ossia che l’ambiente degli «anti-sette» è pieno stipato di contraddizioni, discordanze e incongruenze.

Apprendiamo dai «soliti noti» di CeSAP e FAVIS che recentemente due apostati della Chiesa di Gesù Cristo dei Santi dell’Ultimo Giorno (Mormoni) hanno messo online un sito «per rendere pubblici dei documenti riservati» al fine di denunciare dei presunti abusi commessi nell’ambito di quel movimento religioso, di cui facevano parte.

Tanto per cambiare, l’accento viene posto su possibili casi di abuso sessuale (che, come si è già illustrato in precedenza, per costoro sembra essere un argomento caratterizzato da una sorta di ossessione morbosa).


Abbiamo dato un’occhiata a quel sito e ne abbiamo letto con attenzione la brevissima presentazione.

Non abbiamo potuto far altro che constatarne la lampante incoerenza che caratterizza l’iniziativa sin dall’esordio:


Dichiarano infatti: «FaithLeaks è un’associazione e un mezzo d’informazione non a scopo di lucro basato sul principio che una maggiore trasparenza all’interno delle associazioni religiose dia come risultato un minor numero di falsità, una minore corruzione e meno abusi».

Tant’è che la denominazione cui fa capo il sito è la «Truth and Transparency Foundation», ovvero la Fondazione per la Verità e la Trasparenza. Una sigla quanto mai solenne ed altisonante, si potrebbe dire. Nella pagina principale del loro sito Internet, campeggia il pulsante «Fai una donazione oggi»:


Quindi il principio asserito da «FaithLeaks» è: più trasparenza uguale meno abusi.

Trasparenza, però, che solo i «culti» sono tenuti ad avere. Almeno a giudicare dalle loro stesse affermazioni.

Loro, infatti, l’obbligo/dovere della trasparenza non sembrano averlo: «L’associazione [FaithLeaks] fornisce alle fonti e agli informatori i mezzi tecnici per inviare in forma anonima dei documenti riservati che poi dei professionisti e dei giornalisti possano adoperare per realizzare sulla base di essi (e per ampliare di volta in volta) dei reportage, delle cronache e degli articoli a proposito della religione».

Da notare che i «mezzi tecnici» di cui parlano nient’altro sono che i principali sistemi per occultare la propria identità in Internet, metodi adoperati per lo più da delinquenti telematici e persone che sguazzano fra siti pornografici, pedofilia online, spamming (invio di e-mail pubblicitarie non richieste), reti di terroristi, ecc.

E come se non bastasse, questi «mezzi tecnici» di natura quanto meno discutibile «FaithLeaks» li mette a disposizione di chiunque voglia fare denunce anonime per sviluppare campagne di pettegolezzi e dicerie ai danni di minoranze religiose pacifiche.

Il principio più trasparenza uguale meno abusi, dunque, secondo gli «anti-sette» deve tutelare soltanto chi accusa un movimento religioso e non il movimento religioso che viene messo sotto accusa da qualche ex membro imbufalito, perché il principio «innocente fino a prova contraria» sancito dalla Costituzione della Repubblica Italiana e dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani non è contemplato dai loro valori.

Complimenti! Se esistesse un «Premio Incoerenza», probabilmente sarebbe già stato assegnato.

domenica 24 dicembre 2017

I comunisti mangiano i bambini? No… loro no, ma le «sette» sì!

[Post aggiornato il 16 Marzo 2018]
[Nota: i nomi sono stati oscurati per non perpetrare il sopruso.]

Prima che qualcuno prenda troppo sul serio la nostra provocazione, precisiamo che solo per amor di satira abbiamo intitolato questo post ricalcando la «storica» fanfaluca a proposito dei «compagni» di sinistra (per ulteriori spiegazioni, rimandiamo a questo articolo). Oggi la si definirebbe una «bufala», ma la somiglianza con quanto andremo a raccontare è emblematica.

Un lettore ben informato che sta seguendo il blog e che ha letto il nostro post a proposito della vicenda giudiziaria dei presunti «Angeli di Sodoma», ci ha fatto gentile dono di un documento alquanto pertinente che, pur essendo pubblico, non ci risulta abbia mai visto la luce.

Ne pubblichiamo qualche stralcio per fornire ulteriori elementi a dimostrazione dello scellerato modus operandi degli «anti-sette» e del modo in cui essi foraggiano la «Squadra Anti-Sette» (SAS) per colpire le persone più deboli e i gruppi di minoranza da loro opinabilmente classificati come «culti distruttivi».

Si tratta della famigerata relazione di don Aldo Buonaiuto, sulla base della quale non solo la magistratura ha inflitto la carcerazione preventiva (in attesa di giudizio) a quattro imputati, ma la macchina del fango fomentata dai soliti «anti-sette» ne ha anche rovinato per sempre l’esistenza marchiandoli a fuoco con un’ingiusta nomea di maniaci e assassini. L’unica verità è che uno di loro aveva commesso il reato di cessione (nemmeno spaccio) di stupefacenti (ed è stato quindi condannato per tale illecito).

Come si diceva appunto in quel già citato post, pochi mesi prima dell’istituzione della SAS e proprio in occasione dell’inchiesta giudiziaria che era partita su quei quattro giovani satanisti del pescarese, don Aldo Buonaiuto era stato «nominato sul campo ufficiale di polizia giudiziaria» per assistere «i poliziotti nei meandri oscuri dei riti dedicati al demonio». In altri termini, era stato assunto come consulente dalla Polizia Giudiziaria che stava indagando.

Ecco, infatti, come titolava la relazione (nove pagine) redatta da don Buonaiuto:


Ed ecco come veniva giustificato, nell’introduzione di quel documento (prima pagina), il ruolo del prete cattolico:


Vorremmo soffermarci su un elemento che viene qui fornito: «dopo (…) aver esaminato tutto il materiale acquisito» significa, senza mezzi termini, che don Buonaiuto ha avuto accesso sin dall’inizio a tutti i documenti dell’indagine, ovviamente secretati e quindi preclusi a chiunque altro, persino ai legali degli imputati. Ne consegue che a un prete cattolico (peraltro privo di qualsivoglia titolo accademico in materia di religioni e spiritualità con l’unica, ovvia eccezione della propria) viene affidato l’incarico – singolarmente (per non dire paradossalmente) – di redigere una relazione riguardo a un gruppo di satanisti: quale obiettività potrà mai avere una tale figura? In forza di un simile incarico, tale prete cattolico è automaticamente investito di un potere immenso, ossia quello di esprimere giudizi di merito e accuse molto pesanti che non saranno sottoposte ad alcun contraddittorio né al vaglio di alcuna critica.

Giudizi e considerazioni che, infatti, sono valsi agli imputati il carcere e la rovina totale della loro reputazione ad opera della macchina del fango «anti-sette», già molto prima (ben tre anni) che il tribunale potesse esaminare gli elementi e formulare una propria sentenza.

Sentenza che, quando è arrivata, ha clamorosamente smentito la versione iniziale ed ha razionalmente sanzionato solo i fatti criminosi accertati, nessuno dei quali collimava con i roboanti anatemi del sacerdote livornese.

Tant’è che la denominazione stessa «Angeli di Sodoma» è un’invenzione giornalistica (utile per suscitare timori e ribrezzo) e infatti i quattro indagati hanno subito un massacrante processo mediatico grazie a don Buonaiuto e ai suoi colleghi. Alcuni media di quel periodo sono ancora rintracciabili su Internet, con i loro titoli sensazionalistici: «Bambini drogati e violentati per riti satanici», «Bimbi violentati e drogati, 4 arresti» e «Sette sataniche, “Angeli di Sodoma” pericolosi – ramificazioni da nord a sud».

Ma torniamo al documento ed esaminiamone alcuni passaggi.

Questo paragrafo è posto all’inizio della relazione vera e propria:


Sorvolando su quel curioso quanto ambiguo «egregiamente» che sa un po’ di sviolinata, notiamo subito due elementi cardine: anzitutto, il «gruppo satanico» oggetto di indagine (e dunque – teoria vorrebbe – in quanto tale da considerare innocente fino a prova contraria) è immediatamente definito una «nefasta realtà»; ciò indica inconfutabilmente che la relazione di don Aldo Buonaiuto parte sin da principio con una sentenza inappellabile di colpevolezza, o per dirla in altro modo, con un profondo pregiudizio che non lascia spazio ad alcuna obiettività o serena osservazione. Quale metodo scientifico può venire adottato in presenza di un simile preconcetto?

L’altro elemento è quello dell’allarmismo, che spicca anch’esso da quel primo, chiassoso paragrafo: i quattro giovani pescaresi sarebbero stati addirittura, secondo don Buonaiuto, esponenti di una realtà criminale internazionale. Nulla, però, di quei legami stile «cospirazione mondiale» (che ci ricordano famosi film americani ricchi di effetti speciali), è mai emerso dal processo o dal proseguimento dell’inchiesta. Da quali elementi li avrà colti il prete della SAS? Forse dalla sua inesistente preparazione accademica in materia di criminologia o di filosofia della religione o di sociologia?

Più oltre nella relazione, don Aldo Buonaiuto cerca di portare prove a dimostrazione della sua tesi accusatoria:



Posto che i quattro ragazzi indiziati si fossero dati la denominazione di «Angeli di Sodoma», questa è una pura e semplice interpretazione del significato che essi avrebbero potuto attribuire al vocabolo «angeli»; ma poi,come in un sillogismo sofistico la trattazione prosegue e finisce per tradursi nel sospetto che il gruppo potesse, sulla scorta di quella significanza, commettere un crimine. Ipotesi tutto sommato legittima (sempre ammesso e non concesso che la premessa potesse essere sensata), ma quel sospetto non viene affatto qualificato come tale; tutt’altro, viene proprio fatto assurgere a «elemento di prova»! Eppure non si trattava dell’accertamento che quel genere di atto (tanto orripilante) fosse stato commesso, ma solo di un sospetto fondato su meri concatenamenti di pensiero.

Infatti, proseguendo con la lettura, si ha la netta sensazione che la «relazione» di don Buonaiuto altro non sia se non un vero e proprio «processo alle intenzioni» che ha l’amaro e orrido sapore di un revival dell’inquisizione spagnola.


Indubbiamente, un’affermazione di quel genere risulterebbe aberrante per una persona di buon senso; così sarebbe, in modo particolare, se il significato dato a quelle parole fosse davvero ciò che vuole fare intendere il testo che le riporta. In altri termini, estrapolata dal proprio contesto ed inserita in un dato passaggio di una «perizia» che dipinge una scena con tinte fosche e tetre, senza dubbio una frase tanto eclatante sortisce l’effetto di un ribrezzo istantaneo, suscita come reazione un ipotetico invito a lavarsi la bocca col sapone.

Ciò detto, se l’infelice boutade non ha avuto alcun tipo di seguito e non vi è stato il benché minimo indizio concreto della volontà di mettere in atto una tanto ripugnante condotta, nessuno dovrebbe sentirsi autorizzato a «condannare in via preventiva» un individuo per infanticidio quando tutt’al più lo si potrebbe tacciare di turpiloquio. E questo senza nemmeno aver indagato in quale contesto, in quale momento particolare e in quali condizioni individuali il soggetto avesse esternato dei pensieri tanto gravi. Anche perché la stessa relazione parla di «battuta» e non vi è peraltro alcun accenno al fatto che la «testimonianza» indicata sia stata messa alla prova in termini di veridicità o sia per altri motivi da considerarsi pienamente attendibile.

Eppure, secondo don Aldo Buonaiuto, delle «prove» come quella sono più che sufficienti per considerare gli indiziati dei criminali tout-court:


A noi, invece, da quanto esposto appare evidente come don Aldo Buonaiuto «divulghi pericolosamente» una cultura dell’allarme e del sospetto e dell’intolleranza del diverso, tentando di minare la serenità psichica della gente e – peggio ancora – strumentalizzando le istituzioni dello Stato per reprimere i diritti e la libertà delle persone che non gli garbano.

Ha forse buon gioco don Buonaiuto ad affermare che le persone «in genere» sono «fragili»? Forse vorrebbe che lo fossero, perché in tal caso lui può sentirsi autorizzato a «proteggerle» dal «maligno» e quindi a continuare a richiedere ed ottenere fondi per la sua associazione?

Ma se il «maligno» da lui additato è solamente il libero pensiero e se il «pericolo» è in realtà rappresentato dalla libera associazione, la gente ha davvero bisogno di una simile «tutela» e lo Stato (che si presume sia laico) dovrebbe continuare a finanziarla con il denaro di noi contribuenti?