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sabato 3 novembre 2018

Gli «anti-sette» e la violenza: «Mi volevano salvare, mi hanno torturato»

Abbiamo esemplificato già numerose volte in precedenza, da questo blog, quale grado di incoerenza possano raggiungere taluni esponenti «anti-sette»: per esempio, allorquando danno a vedere di voler difendere i diritti di certe minoranze come gli omosessuali o LGBT salvo poi portare sugli allori chi invece non ha mai rinnegato pratiche violente come la «deprogrammazione». Oppure quando da un lato disapprovano con enfasi (e peraltro giustamente) lo «stigma» a cui talora vengono sottoposti i gay, e poi dall’altro avallano o conducono in proprio una campagna per ghettizzare movimenti religiosi da loro considerati «non convenzionali» oppure pratiche e credenze che si discostano dalla tradizione locale.

Questo in particolare è il paradosso sovente espresso da Sonia Ghinelli di FAVIS, chiacchierata associazione «anti-sette» con sede a Rimini che, a dispetto delle sue molteplici contraddizioni e delle clamorose smentite di cui è stata oggetto, risulta essere a tutt’oggi referente della «polizia religiosa» SAS (la «Squadra Anti-Sette» del Ministero dell’Interno) nonché federata alla controversa sigla europea FECRIS.

Qualche giorno fa abbiamo notato nuovamente quella tipica antinomia di Sonia Ghinelli, in questo post (pubblicato, come sempre in incognito, dal suo anonimo profilo «Ethan Garbo Saint Germain»):


Nell’articolo richiamato dal post di Sonia Ghinelli, si legge:

Il concetto base (…) è che l’omosessualità è un vizio, una malattia: l’obiettivo è la guarigione. Se questa non avviene, allora «meglio il suicidio».

Per inciso: un asserto, questo, che ricorda un po’ il velato raffronto cui sembrava alludere Luigi Corvaglia fra le credenze «alternative» e la tossicodipendenza, del quale abbiamo parlato in uno dei nostri ultimi post.

Negli anni ’50 e ’60 la terapia di conversione consisteva spesso in elettroshock, terapia dell’avversione (dove certi stimoli vengono abbinati a sensazioni disgustose o di paura) e lobotomia.

Oggi le torture fisiche sono state sostituite da quelle psicologiche. Alla LIA, per esempio, è comune la pratica del finto funerale ovvero la messa in scena della morte di uno dei partecipanti, sdraiato in una bara e con intorno candele accese, mentre i compagni leggono il suo epitaffio raccontando la sua discesa nell’Hiv e poi nell’Aids.

Ma questi sono esattamente i metodi coercitivi usati da certi «anti-sette» come Rick Ross (esponente dell’ormai defunto CAN di cui abbiamo parlato nella serie di contributi di Epaminonda sulla strage di Waco), o dalla (fu) AFF, American Family Foundation, in seguito evolutasi e sotto la nuova denominazione di ICSA.

E chi collaborava intensamente con l’AFF negli anni ’90 dello scorso secolo? Una figura fra le molte: Janja Lalich, la sociologa amica di Lorita Tinelli del CeSAP, sostenitrice della controversa teoria del «lavaggio del cervello» e ritenuta un modello di riferimento proprio dalla Ghinelli.

Addirittura in una recentissima intervista la Lalich ricorda quella metodologia e, pur precisando che è stata «screditata» anche perché «il rapimento è un atto illecito», non manca di specificare che «spesso funzionava» e non ne prende realmente le distanze come razionalmente ci si aspetterebbe. Esattamente come faceva già verso la fine degli anni 1990, quando cercava di differenziarsi da quelle pratiche che il più delle volte si trasformavano in gravi abusi, sostenendo che la sua attività attuale non andava definita «deprogrammazione» ma piuttosto «educazione».

In the 1960s, ’70s and ’80s, families often hired so-called deprogrammers to kidnap and hold cult members against their will. While that often worked, abduction is illegal, and the technique was discredited after a Washington man successfully sued his deprogrammer in 1995.

Negli anni 1960, ’70 e ’80, spesso le famiglie ingaggiavano dei cosiddetti deprogrammatori per rapire e segregare i membri delle sette. Sebbene ciò spesso funzionasse, il sequestro di persona è illegale e quella tecnica fu screditata dopo che nel 1995 un cittadino di Washington vinse in tribunale contro l’uomo che l’aveva deprogrammato.


Quindi Sonia Ghinelli con una mano sostiene di difendere i diritti di una minoranza come quella LGBT, con l’altra mano appoggia i deprogrammatori e i loro abusi.

Quasi stupisce che Maurizio Alessandrini, avendo da vent’anni come mentore una Ghinelli che approva le metodologie degli estremisti «anti-sette» americani, non abbia tentato anche lui di far segregare e «deprogrammare» il figlio Fabio, magari rivolgendosi proprio a qualcuno di quei sedicenti «esperti».

Per quanto è dato sapere, fortunatamente non è mai accaduto nulla del genere; inoltre, in Italia non si registrano da almeno trent’anni casi di «rieducazione» violenta ai danni di devoti di movimenti religiosi alternativi.

L’ideologia intollerante e discriminatoria, però, a quanto pare è dura a morire.

sabato 27 ottobre 2018

Quando gli «anti-sette» vengono colti in fallo: la debole replica di Luigi Corvaglia

di Mario Casini


Comincio a disperare della mia utopia che possa avvenire, un giorno o l’altro, un serio esame di coscienza da parte dei militanti «anti-sette» di CeSAP, FAVIS, AIVS e qualchedun altro.

Questo dico dopo aver letto, e in parte risposto, alle reazioni di Sonia Ghinelli, Lorita Tinelli e Luigi Corvaglia al penultimo post del presente blog, nel quale venivano sottolineate le incongruità di un maldestro tentativo di screditare un’illustre studiosa tacciandola addirittura, con scarso rispetto, di propalare «fake news».

Disillusione, la mia, che proviene dal carattere delle repliche di questi esponenti «anti-sette»: laddove mi aspetterei una critica puntuale e dialogica, mi ritrovo a dover leggere improperi (di cui tengo traccia e nota, pur non pubblicizzandoli) o – bene che vada – battute fuori luogo. Tutte cose che paiono tentativi di fuorviare, sminuire, scantonare.

Unica eccezione – che sottolineo con soddisfazione – è un appunto mosso da Sonia Ghinelli su un dettaglio tutto sommato marginale (titolo e qualifica di Janja Lalich) ma che nondimeno sarà volentieri (e a breve) oggetto di opportuna revisione e – se necessario – darà adito ad una rettifica.

Tuttavia – e disgraziatamente – quanto al merito vero e proprio del post si è dovuto attendere una decina di commenti per così dire «interlocutori» prima che Luigi Corvaglia si degnasse di fornire una replica vera e propria, dopo aver non poco tergiversato.

E pensare che lo stesso psicologo leccese (che odia essere definito «pugliese»… sic) solo qualche anno fa ha sentenziato (testuali parole sue!) quanto segue.

«È vero che il concetto di manipolazione mentale
non è universalmente accolto in ambito scientifico.»

Ma al nostro post, che dimostra l’inefficacia di un suo tentativo di screditare la prof.ssa Eileen Barker, Corvaglia deve a tutti i costi rispondere impettito (ostentando una superiorità che stride con vari segnali, fra cui le ben quattro modifiche del suo commento) e sostenendo che altri hanno «male interpretato il senso di quel suo piccolo scritto». Eppure c’era ben poco da interpretare, tant’è che sono state riportate fedelmente le sue stesse parole, il cui senso è peraltro lampante.

Una replica, quella di Luigi Corvaglia, che purtroppo riesce solo ad evidenziare ulteriormente una volontà evasiva di sostenere ancora delle argomentazioni già dimostrate fallaci; una sorta di «difesa dell’indifendibile».


Tant’è che bisogna arrivare quasi a metà del suo lungo commento, sfrondando le pure e semplici lamentazioni, per trovare la replica vera e propria.

Scrive infatti Corvaglia:


Il concetto è alquanto chiaro: il suo post prendeva di mira un singolo aspetto del saggio della prof.ssa Barker. Ne prendiamo atto, per non dire che era lapalissiano. Ciò precisato, tale assunto non mina in alcun modo la validità della nostra confutazione. Anzi, conferma che Corvaglia ha sbocconcellato il saggio della studiosa britannica nella vana speranza di riuscire a trovarvi qualche punto debole.

Scrive altresì Corvaglia:


Eppure è stato proprio Corvaglia a introdurre la sua «breve “pillola”» con questa frase:

«Le tecniche di persuasione non sono particolarmente efficaci e il fatto che la gente entri ed esca liberamente dai culti dimostra che non esiste il “lavaggio del cervello”.»

Allora questa «breve “pillola”» riguarda o non riguarda il «lavaggio del cervello»? Mi domando cos’altro si potrebbe escogitare per negare un fatto tanto ovvio.

Ma proseguiamo per vedere come Corvaglia conclude la propria replica:


Posso solo ringraziare lo psicologo leccese a nome della redazione del blog perché ci riconosce appieno di aver perfettamente inteso il senso del suo scritto.

Infatti, è proprio quello da lui riaffermato il punto che gli si è voluto contestare e che gli va ribadito, così che (forse) sia proprio lui ad afferrarne il concetto:

Chiunque eserciti una minima dose di buon senso, direbbe: che ci azzecca? Rispondiamo noi: perfettamente nulla. 
Corvaglia traspone una questione statistica afferente all’ambito dell’affiliazione religiosa in un ambito riguardante la tossicodipendenza, che si colloca dunque fra il fisiologico e lo psicologico.
Sarebbe come dire che, siccome solo uno «zero virgola» degli acquirenti di autovetture Fiat torna ad acquistare Fiat successivamente, allora l’efficacia dei metodi di vendita dei commerciali Fiat non è nemmeno paragonabile ai discorsi di persuasione dei Moonisti. Dinanzi a un siffatto paragone, ci si sentirebbe decisamente presi per i fondelli.

In definitiva, è sorprendente che proprio lo psicologo «anti-sette» Luigi Corvaglia continui a rifarsi ad una teoria (quella del «lavaggio del cervello» alias «manipolazione mentale»), da lui stesso riconosciuta controversa, da più parti sbugiardata, priva di basi scientifiche accreditate, quasi come se fosse un dogma. Non sarà forse, il suo, un atto di fideismo simile a quelli tanto dileggiati dalla sua amicissima e collega psicologa Lorita Tinelli?

E pensare che proprio Luigi Corvaglia cita frequentemente il noto filosofo della scienza Karl Raimund Popper per ricordare che «la conoscenza scientifica non è oggettiva, né sicura né tantomeno completa», che «la nostra attuale visione del mondo non è necessariamente “vera”, ma sicuramente verosimile», e che «l’assolutismo della fede (e questo vale tanto per quella religiosa, quanto per quella politica o calcistica) comporta l’infalsificabilità, ovvero la svalutazione delle evidenze contrarie ai propri dettami di fede».

Non è una «svalutazione delle evidenze contrarie ai propri dettami di fede» quella che ha tentato di produrre lo psicologo leccese nei suoi derisori commenti al nostro post?

D’altronde, si sa: guai a sottoporre a figure come Lorita Tinelli o allo stesso Corvaglia elementi anche cospicui che contraddicono le loro asserzioni!

Ma dunque, non paiono forse proprio gli «anti-sette» dei gruppi chiusi, astiosi ed ostili che seguono i dettami di pochi individui i quali hanno proclamato delle presunte verità dogmatiche, autoreferenziali e antiscientifiche? Non tentano poi di schernire, osteggiare ed intimidire chiunque abbia l’ardire di metterle in discussione o di muovere loro delle critiche?

In altri termini, costoro non si comportano proprio come sostengono che agisca una «setta» o un «culto distruttivo»?

martedì 23 ottobre 2018

Paradossi «anti-sette»: Luigi Corvaglia, una «bufala» per (fingere di) smentire «fake news» inesistenti

[N.B. Post modificato in data 30/10/2018 per rettificare l'impreciso riferimento alla prof.ssa Janja Lalich]

È ormai da tempo un fatto conclamato che gli «anti-sette» cercano di riaffermare talune teorie da loro spesso adoperate per giustificare il proprio operato; tentano di ribadirle perché rappresentano appigli e basi ideologiche su cui poter fondare le campagne mediatiche alle quali danno adito, e per poter classificare movimenti religiosi da loro odiati come «sette», «culti distruttivi», «culti abusanti», ecc. Una prassi (questa dello «stigma» contro le cosiddette «sette»), che accomuna le diverse associazioni del panorama «anti-sette» italiano: AIVS, CeSAP, FAVIS e la loro controversa capofila europea FECRIS.

Quando però ricercatori indipendenti come noi, piuttosto che giornalisti o studiosi, mettono in luce le incongruenze del loro argomentare, ecco che scattano le offese, lo scherno e le intimidazioni, invece di critiche obiettive e puntuali come ci si aspetterebbe in un contraddittorio civile e costruttivo.

Quello che focalizziamo nel presente post è un tentativo paradossale e forse subdolo, da parte di Luigi Corvaglia (psicologo ed esponente «anti-sette» piuttosto attivo negli ultimi tempi, forse perché ansioso di ritagliarsi una sua fetta di palcoscenico per motivi che abbiamo ben evidenziato qui), di «smentire» solo una delle numerose argomentazioni mosse dal mondo accademico contro le tesi estremiste degli ideologi «anti-sette». Tesi peraltro molto simili (se non sovrapponibili) a quelle adoperate nel periodo fascista per discriminare le confessioni religiose minoritarie e per giustificarne la persecuzione, come si è descritto nei due post (primo e secondo) a proposito della circolare «Buffarini Guidi».

Andiamo al sodo.


Luigi Corvaglia (presidente del succitato CeSAP), in un articolo che ha scritto il 9 aprile scorso e ha pubblicato su un proprio blog personale, asserisce che secondo la prof.ssa Eileen Barker, «le tecniche di persuasione [nella Chiesa dell’Unificazione, un gruppo annoverato fra i «nuovi movimenti religiosi»] non sono particolarmente efficaci e il fatto che la gente entri ed esca liberamente dai culti dimostra che non esiste il “lavaggio del cervello”».

Corvaglia fa riferimento a uno studio (del 1984) sulla «Chiesa dell’Unificazione del Reverendo Moon», che per la verità s’intitola «The Making of a Moonie: Choice or Brainwashing?» (e non «The Making of the Moonies» come scorrettamente indicato dello psicologo pugliese). Per completezza, la traduzione letterale del titolo del saggio sarebbe «Come si diventa Moonie, scelta o lavaggio del cervello?».


Si tenga conto che la prof.ssa Eileen Barker, ora ottantenne, è una luminare nel campo della sociologia, infatti conduce e pubblica studi sui movimenti religiosi da quasi quarant’anni); dunque già il fatto di tacciarla di dare adito a «fake news» ha come minimo dell’irriguardoso.

Inoltre, ammesso e non concesso che l’esatto enunciato della prof.ssa Barker sia quello riportato da Luigi Corvaglia nel suo post (è lecito dubitarne perché non è virgolettato ma è preso di rimando da un altro scritto in cui viene menzionato), occorre anche considerare il fatto che si sta astraendo un unico concetto da uno studio di ben 300 (trecento) pagine che andrebbe letto integralmente. Corvaglia l’avrà fatto? Chissà…

Comunque il dato statistico cruciale, su cui Corvaglia impernia tutto il suo tentativo di confutazione, è:

«Barker ha scoperto che su oltre 1.000 persone fermate per strada che hanno partecipato al loro primo evento Moonie (generalmente un pranzo), circa il 33,3% è andato al seguente corso / workshop, circa il 10% ha dichiarato di voler aderire e circa il 5% era ancora membro a tempo pieno due anni dopo.»

Il che, tradotto in cifre, significa che mediamente solo 5 (cinque) persone su 100 (cento) dopo due anni proseguono nel cammino spirituale proposto dalla Chiesa dell’Unificazione. Le altre 95 (novantacinque) lo abbandonano oppure ne smettono l’adesione o la praticano molto meno assiduamente di prima.

Un dato statistico – si noti – che lo psicologo «anti-sette» Luigi Corvaglia nemmeno si sogna di smentire, per il semplice fatto che non può! Non ha mai svolto uno studio qualificato ed esteso come quello della prof.ssa Barker, né possiede gli strumenti teoretici per poter contraddire la nota sociologa.

L’unica cosa che Corvaglia può solo tentare di fare è screditare l’assunto conclusivo della prof.ssa Barker.

Come lo fa? Dapprima chiama in causa la sua amica sociologa Janja Lalich la quale rimane sostanzialmente ai margini della questione e (riporta Corvaglia) «fa il confronto con gli effetti della propaganda di Billy Graham, un pastore battista di enorme popolarità negli USA e noto per le sue “crociate”»:

«(…) le cifre mostrano che circa dal 2% al 5% “sceglie Cristo”; solo circa la metà di queste rimane attiva un anno dopo, e dallo 0,33% allo 0,75% circa rimane permanentemente convertita. Questi dati rivelano tassi di reclutamento e di ritenzione molto inferiori a quelli presentati dallo studio di Barker sui Moonies.»

In concreto, la Laljc riesce solo a fare una fredda comparazione statistica fra due movimenti minoritari, che tutt’al più può fornire degli indizi da interpretare o – meglio – degli spunti per una ricerca seria. Tutta da compiere, però.

Secondo Luigi Corvaglia, invece questa citazione di tre righe dovrebbe confutare l’intero studio della prof.ssa Barker semplicemente «dimostrando» che, siccome il pastore Graham riscuote grande successo negli USA ma al contempo solo un’infinitesima parte di chi aderisce alle sue prediche lo segue anche successivamente, allora l’opera di convincimento dei Moonie deve per forza avere qualche caratteristica coercitiva siccome invece le loro percentuali di permanenza sono tot volte più elevate. E questa secondo Corvaglia sarebbe scienza?

Evidentemente no, se lui stesso si sente poi costretto a pescare dalla propria esperienza di dirigente SerT («servizio tossicodipendenze», quel ramo dei servizi sociosanitari che somministra metadone e altre sostanze stupefacenti come terapia per chi si droga) e proclama che, secondo uno studio delle Nazioni Unite, «solo il 9% delle persone che consumano sostanze psicotrope illecite finisce per sviluppare una addiction».

Per la cronaca, parlando in italiano, «addiction» si direbbe «dipendenza».

A tale conclusione, che secondo Corvaglia dovrebbe «demolire» definitivamente la ricerca della prof.ssa Barker, si giunge tenendo conto che:


«a livello mondiale circa 243 milioni di persone, cioè il 4,5% della popolazione,
ha usato almeno una sostanza psicotropa illecita; le persone che hanno
sviluppato dipendenza sono invece circa 27 milioni, all’incirca lo 0.5%
della popolazione adulta mondiale.»

Chiunque eserciti una minima dose di buon senso, direbbe: che ci azzecca? Rispondiamo noi: perfettamente nulla.

Corvaglia traspone una questione statistica afferente all’ambito dell’affiliazione religiosa in un ambito riguardante la tossicodipendenza, che si colloca dunque fra il fisiologico e lo psicologico.

Sarebbe come dire che, siccome solo uno «zero virgola» degli acquirenti di autovetture Fiat torna ad acquistare Fiat successivamente, allora l’efficacia dei metodi di vendita dei commerciali Fiat non è nemmeno paragonabile ai discorsi di persuasione dei Moonisti. Dinanzi a un siffatto paragone, ci si sentirebbe decisamente presi per i fondelli.

Inoltre, cosa sta cercando di insinuare? Che la religione o la spiritualità sono da equiparare alla droga e dunque vanno esaminate seguendo gli stessi canoni?

In conclusione: lo psicologo Luigi Corvaglia non solo non dimostra nulla di ciò che speciosamente afferma nel titolo del proprio post e nell'immagine pantagruelica che lo rappresenta, ma finisce addirittura su un piano a dir poco sdrucciolevole e formula un asserto a dir poco discutibile.

Tutto ciò solo per evitare di accettare la nuda e cruda realtà: le teorie del «lavaggio del cervello» accampate ad ogni piè sospinto dai suoi compari «anti-sette» non sono più né attuali né credibili, e nel ventunesimo secolo dovrebbero essere definitivamente abbandonate.