Visualizzazione post con etichetta omosessuali. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta omosessuali. Mostra tutti i post

lunedì 28 gennaio 2019

Propaganda «anti-sette» per discriminare gli omosessuali e devastare le famiglie?

di Mario Casini


Quando la propaganda «anti-sette» entra in una famiglia o in una comunità, sono sempre guai.

E le comunità, si sa, sono composte da singoli cittadini che a loro volta fanno parte di famiglie più o meno numerose.

In tutti i casi, l’allarmismo sulle presunte «sette» e gli anatemi contro ipotetici «culti distruttivi» finiscono sempre per ingenerare sospetto, tensione, insofferenza, discussioni, litigi, fino alle reazioni violente.

Lo abbiamo visto in molti casi e in storie alquanto diverse l’una dall’altra: si pensi al tragico caso della bassa modenese, alla persecuzione giudiziaria ai danni di Ananda Assisi, al marito che tenta di assassinare la ex moglie o a un centro religioso per il recupero dei tossicodipendenti (la Comunità Shalom) improvvisamente diventato un «lager» secondo i media, oppure una semplice scampagnata fra amici che getta nello scompiglio un’intera cittadina scozzese.

Questa volta, a finire nel tritacarne dell’odio istigato dalla disinformazione e da «cose che tutti sanno» ma che provengono da fonti nascoste e del tutto tendenziose, sono due giovani donne omosessuali. Due ragazze che si sono scoperte innamorate e che, con la «lieta furia» dei loro vent’anni, hanno deciso di sposarsi malgrado le pressioni per rompere la loro unione.


Parlo della storia di Denise e Deborah che è stata raccontata su Canale 5 a «C’è posta per te» qualche giorno fa.

Vi sono indubbiamente degli aspetti relazionali che hanno acuito il conflitto, degli errori e delle incomprensioni. Tuttavia, mi hanno molto colpito alcuni stralci della ricostruzione emersa dai racconti di tutti gli interessati, cioè le due giovani stesse e i familiari di una delle due (Denise).

Per esempio questo:


mi hanno detto che molto probabilmente ero stata plagiata, che era soltanto una cosa passeggera …

Lo stesso, identico genere di «persuasione» che viene adoperata ai danni di chi ha abbracciato un movimento religioso contro il quale è stata messa in moto la macchina del fango della propaganda «anti-sette». E non è nemmeno detto che debba essere per forza un «culto alternativo», potrebbe persino essere un gruppo di tutt’altro genere, come è il caso di «Un Punto Macrobiotico».

Insulti (dai propri stessi familiari!), umiliazione, limitazione della libertà personale, sorveglianza speciale: tutto questo può subire chi ha fatto una scelta inaspettata o non condivisa. Lo sgomento è tale (anche a causa dell’incomprensione che si viene a creare) che i genitori, imbevuti dalle «notizie» che hanno inevitabilmente sentito o letto qua e là in TV o su Internet, sono già «indottrinati» a «sapere» che quando avvengono certe cose il proprio figlio deve aver subito il «lavaggio del cervello».



ricominciano a insultarla, a dirle che lei sta appartenendo ad una setta, che le hanno fatto il lavaggio del cervello …

Per riprendere un articolo del quale abbiamo parlato nel nostro post «Anti-sette», disinformazione e fake news: manipolazione mentale di massa: «il costante ed immediato flusso di informazioni (verificate e non) tende ad annullare la capacità di analisi critica dell’utente (…). Le informazioni non verificate ma ritenute veritiere dagli utenti influenzano la percezione e la comprensione generale degli eventi».

Ed è esattamente quello che è capitato a questa famiglia, in cui il germe del pregiudizio e dell’odio hanno ammorbato i rapporti umani di una mezza dozzina di persone, conducendole sul punto di una frattura insanabile (o quasi).

Tanto è vero che persino il fratello di Denise mostra come sia stato dato ormai per assodato che il presunto «plagio mentale» di Deborah ai suoi danni sia stato tale da privarla addirittura della libertà e della facoltà di «esprimere le proprie opinioni».


è molto succube ... non è libera di esprimere nessuna opinione …

Quindi Deborah, giovane innamorata di Denise, deve essere una sorta di novella Mesmer e aver ipnotizzato l’amata fino a convincerla a cambiare il proprio orientamento sessuale?

Un’idea talmente antiscientifica che è persino inutile commentarla.

Eppure è sempre la stessa tecnica che ho già citato in un precedente post, ben illustrata da un giornalista di lungo corso come Marcello Foa (ora massimo dirigente RAI) in un video di cui avevo ripreso un brevissimo stralcio:


Il caso di Denise e Deborah, con l’omosessualità condannata quale risultato di una «manipolazione mentale», non può non far correre il pensiero a quel caso clamoroso che cinquant’anni fa vide un intellettuale di sinistra dichiaratamente (anzi, per quei tempi, coraggiosamente) gay messo sotto accusa sulla base del reato di plagio, rimasuglio stantio del codice penale del periodo fascista. Parlo ovviamente di Aldo Braibanti, un professore che finì per essere l’unico uomo condannato per plagio nella storia d’Italia. Senza aggiungere altro a quella triste storia, cito quale fonte questo articolo del giornalista Giuseppe Loteta, che quella stagione di battaglie sociali la visse sulla propria pelle in difesa dei diritti di tutti.

Il reato di plagio fu giudicato incostituzionale nel 1981 dalla celebre sentenza nr. 96 della Corte Costituzionale datata 8 giugno 1981, dopo che a finire sotto accusa era stato un sacerdote cattolico, don Emilio Grasso, accusato di aver messo in atto un «lavaggio del cervello» ai danni di alcuni giovani della borghesia  romana per persuaderli ad abbandonare i loro propositi di studio e di carriera per seguirlo nelle sue attività sociali.

La storia ci insegna che il processo per plagio a carico di Aldo Braibanti si concluse con un’impietosa condanna.

Questa volta, per lo meno, la vicenda di una famiglia devastata ha visto un timido lieto fine.


sabato 3 novembre 2018

Gli «anti-sette» e la violenza: «Mi volevano salvare, mi hanno torturato»

Abbiamo esemplificato già numerose volte in precedenza, da questo blog, quale grado di incoerenza possano raggiungere taluni esponenti «anti-sette»: per esempio, allorquando danno a vedere di voler difendere i diritti di certe minoranze come gli omosessuali o LGBT salvo poi portare sugli allori chi invece non ha mai rinnegato pratiche violente come la «deprogrammazione». Oppure quando da un lato disapprovano con enfasi (e peraltro giustamente) lo «stigma» a cui talora vengono sottoposti i gay, e poi dall’altro avallano o conducono in proprio una campagna per ghettizzare movimenti religiosi da loro considerati «non convenzionali» oppure pratiche e credenze che si discostano dalla tradizione locale.

Questo in particolare è il paradosso sovente espresso da Sonia Ghinelli di FAVIS, chiacchierata associazione «anti-sette» con sede a Rimini che, a dispetto delle sue molteplici contraddizioni e delle clamorose smentite di cui è stata oggetto, risulta essere a tutt’oggi referente della «polizia religiosa» SAS (la «Squadra Anti-Sette» del Ministero dell’Interno) nonché federata alla controversa sigla europea FECRIS.

Qualche giorno fa abbiamo notato nuovamente quella tipica antinomia di Sonia Ghinelli, in questo post (pubblicato, come sempre in incognito, dal suo anonimo profilo «Ethan Garbo Saint Germain»):


Nell’articolo richiamato dal post di Sonia Ghinelli, si legge:

Il concetto base (…) è che l’omosessualità è un vizio, una malattia: l’obiettivo è la guarigione. Se questa non avviene, allora «meglio il suicidio».

Per inciso: un asserto, questo, che ricorda un po’ il velato raffronto cui sembrava alludere Luigi Corvaglia fra le credenze «alternative» e la tossicodipendenza, del quale abbiamo parlato in uno dei nostri ultimi post.

Negli anni ’50 e ’60 la terapia di conversione consisteva spesso in elettroshock, terapia dell’avversione (dove certi stimoli vengono abbinati a sensazioni disgustose o di paura) e lobotomia.

Oggi le torture fisiche sono state sostituite da quelle psicologiche. Alla LIA, per esempio, è comune la pratica del finto funerale ovvero la messa in scena della morte di uno dei partecipanti, sdraiato in una bara e con intorno candele accese, mentre i compagni leggono il suo epitaffio raccontando la sua discesa nell’Hiv e poi nell’Aids.

Ma questi sono esattamente i metodi coercitivi usati da certi «anti-sette» come Rick Ross (esponente dell’ormai defunto CAN di cui abbiamo parlato nella serie di contributi di Epaminonda sulla strage di Waco), o dalla (fu) AFF, American Family Foundation, in seguito evolutasi e sotto la nuova denominazione di ICSA.

E chi collaborava intensamente con l’AFF negli anni ’90 dello scorso secolo? Una figura fra le molte: Janja Lalich, la sociologa amica di Lorita Tinelli del CeSAP, sostenitrice della controversa teoria del «lavaggio del cervello» e ritenuta un modello di riferimento proprio dalla Ghinelli.

Addirittura in una recentissima intervista la Lalich ricorda quella metodologia e, pur precisando che è stata «screditata» anche perché «il rapimento è un atto illecito», non manca di specificare che «spesso funzionava» e non ne prende realmente le distanze come razionalmente ci si aspetterebbe. Esattamente come faceva già verso la fine degli anni 1990, quando cercava di differenziarsi da quelle pratiche che il più delle volte si trasformavano in gravi abusi, sostenendo che la sua attività attuale non andava definita «deprogrammazione» ma piuttosto «educazione».

In the 1960s, ’70s and ’80s, families often hired so-called deprogrammers to kidnap and hold cult members against their will. While that often worked, abduction is illegal, and the technique was discredited after a Washington man successfully sued his deprogrammer in 1995.

Negli anni 1960, ’70 e ’80, spesso le famiglie ingaggiavano dei cosiddetti deprogrammatori per rapire e segregare i membri delle sette. Sebbene ciò spesso funzionasse, il sequestro di persona è illegale e quella tecnica fu screditata dopo che nel 1995 un cittadino di Washington vinse in tribunale contro l’uomo che l’aveva deprogrammato.


Quindi Sonia Ghinelli con una mano sostiene di difendere i diritti di una minoranza come quella LGBT, con l’altra mano appoggia i deprogrammatori e i loro abusi.

Quasi stupisce che Maurizio Alessandrini, avendo da vent’anni come mentore una Ghinelli che approva le metodologie degli estremisti «anti-sette» americani, non abbia tentato anche lui di far segregare e «deprogrammare» il figlio Fabio, magari rivolgendosi proprio a qualcuno di quei sedicenti «esperti».

Per quanto è dato sapere, fortunatamente non è mai accaduto nulla del genere; inoltre, in Italia non si registrano da almeno trent’anni casi di «rieducazione» violenta ai danni di devoti di movimenti religiosi alternativi.

L’ideologia intollerante e discriminatoria, però, a quanto pare è dura a morire.

martedì 8 maggio 2018

Aggiornamento breve - Sonia Ghinelli e lo stigma «anti-sette»

Negli ultimi giorni le manifestazioni incoerenza da parte dell’asse «anti-sette» AIVS-CeSAP-FAVIS sono di un’evidenza veramente singolare.

Quest’ultima sigla, FAVIS («Familiari Vittime delle Sette»), è una chiacchierata associazione a «conduzione familiare» ormai nota più che altro per le proprie controversie e sbugiardata in primis dal figlio del principale esponente, Maurizio Alessandrini; da un po’ non ce ne stavamo occupando, ma le riflessioni degli ultimi giorni sul modo in cui gli «anti-sette» cercano di ghettizzare migliaia e migliaia di persone (facenti parte dei «movimenti religiosi alternativi») manipolando la pubblica informazione e continuando a suonare la grancassa mediatica con storie allarmistiche, ci ha fatto soffermare sul concetto di «stigma».

In conclusione di un recente post, abbiamo riportato un breve estratto di una lezione tenuta da un’esperta di religioni, sette e spiritualità, la prof.ssa Raffaella Di Marzio.

Ne riproponiamo qui un ulteriore, brevissimo stralcio:


Per «stigma» (qui una definizione completa del termine, l’accezione di nostro interesse è l’ultima, la 4-b) s’intende l’attribuzione di qualità negative a una persona o a un gruppo di persone, soprattutto rivolta alla loro condizione sociale e reputazione; per rendere l’idea, in tempi ormai lontani lo stigma era anche il marchio impresso a fuoco sul corpo di briganti o schiavi (come viene ricordato in questo lemma sempre dell’ottimo vocabolario Treccani).

Tramite il suo anonimo e discutibile profilo «Ethan Garbo Saint Germain», Sonia Ghinelli del FAVIS ha in più occasioni lamentato la discriminazione che di quando in quando viene perpetrata nei confronti di chi vive la propria sessualità in modo anticonformista, definendo appunto tali casi come «stigma»:


È molto interessante esaminare la descrizione fatta dalla Ghinelli (che peraltro sentiamo di condividere appieno) di come gli omosessuali vengono talvolta additati e quindi discriminati: «sono malati» (discriminazione), quindi «vanno emarginati» (isolamento), pertanto «necessitano di essere curati» (persecuzione).

Ci ricorda qualcosa? Certamente: sono le stesse identiche fasi che conducono la società a ostracizzare gruppi etnici, politici o religiosi che per qualche ragione risultano «scomodi» e quindi devono essere eliminati «per il bene della società». Per dirla con un classico, «Carthago delenda est».

Infatti questo commento della «fluida» Ghinelli s’inquadra nel contesto di un post con il quale ella si lamentava di alcune affermazioni secondo cui, per l’appunto gli omosessuali abbisognano di «terapie riparative»:


Ciò che lascia sbalorditi è il modo come alla Ghinelli sembri sfuggire che proprio lei, su un altro versante, si comoporta esattamente nello stesso modo!

Ci si domanda davvero come sia possibile che non se ne renda conto e se la sua non sia invece una «svista» tutt’altro che casuale. Un’ipotesi, questa, forse più realistica che maliziosa.

Il post e il commento riportati sopra erano di gennaio 2015. Ma anche più di recente (primi 2018) il tema si ripropone tale e quale, segno che la Ghinelli l’ha veramente (e comprensibilmente) a cuore; fatto che – lo ribadiamo – di per sé è tutt’altro che discutibile e anzi condivisibile:


Notare come anche questo post, correttamente, parli di «stigma sociale». Perché tale è la prassi quando è in atto il tentativo di mettere al bando o discriminare un determinato gruppo o minoranza.

Ma l’ingegno della Ghinelli non sembra riuscire ad afferrare (oppure le sue mire non sembrano poterle concedere) il fatto che un così scellerato modus operandi è riconoscibile tanto contro gli omosessuali quanto nei confronti dell’etnia Sinti e allo stesso modo ai danni dei nuovi movimenti religiosi.

Lungi dall’essere coerente con le proprie affermazioni libertarie e rispettose del diverso, la Ghinelli si lancia in una dialettica paradossale in quanto discriminatoria e anti-discriminatoria al tempo stesso:


Con la «mano destra» difende gli omosessuali, con la mano sinistra mena fendenti contro i Testimoni di Geova.

Si renderanno mai conto gli «anti-sette» di rappresentare una continua contraddizione di se stessi?