Il caso di specie è quello (tragico) di Imane Laloua, una giovane donna di origine marocchina scomparsa dalla sua casa di Prato nel 2003, i cui resti scarnificati sono stati ritrovati solo tre anni più tardi in un’area di servizio dell’autostrada A1, ma la scoperta che l’identità di quei brandelli fosse da ricondurre alla povera Imane è avvenuta solo dodici anni più tardi e nei media si è letto come la SAS di Firenze abbia ipotizzato che si sia trattato di un assassinio da parte di una «setta satanica».
Il 13 novembre scorso, infatti, la trasmissione di RAI 3 «Chi l’ha visto?» ha rimandato in onda un appello che venne rivolto ancora un anno fa dalla madre di Imane, che (non ancora consapevole che il ritrovamento di quei resti umani sarebbe stato poi attribuito alla figlia) non si era mai rassegnata all’idea di non poter più rivederla.
In poco più di un minuto e mezzo, la signora porta alla luce la negligenza di chi avrebbe forse dovuto occuparsi della sua vicenda con un approccio differente:
«Mia figlia non è stata cercata», dice la madre della scomparsa Imane mostrando peraltro, nel suo immenso dolore, una straordinaria dignità: difficile comunuque mettere in discussione tale sua affermazione, fatta quattordici anni dopo la sparizione di sua figlia da casa.
E di nuovo, riferendosi alle indagini e precisando di averne visionato il fascicolo, soggiunge:
Tutti indizi che sembrano confermare quanto scrivevamo nel nostro post precedente:
«Forse questi poliziotti, con un caso ancora irrisolto dopo quindici anni dalla sparizione della povera Imane, fuorviati da tesi ideologiche troppo aleatorie per potersi amalgamare con dei compiti investigativi concreti e scientifici, stanno cercando in ogni modo di non perdere la faccia avvalorando le loro ipotesi?»
La pista investigativa del marito, pregiudicato e coinvolto in affari di droga, sembra essere stata trascurata; per lo meno, non ve ne è stata alcuna menzione quando ragionevolmente ci si aspetterebbe che sia la prima strada da percorrere per scoprire cosa fosse accaduto alla povera Imane.
Forse che il can can mediatico sulla presunta «setta religiosa» assassina è soltanto una cortina fumogena del tutto funzionale a far perdere le tracce delle negligenze commesse?
Ascoltiamo ancora qualche secondo dell’accorato appello della madre di Imane:
Come spiega poi il presentatore, è solo a seguito dell’intervista mandata in onda dalla trasmissione di RAI 3 l'anno scorso che la procura ha ripreso in esame il suo caso e ha scoperto, dopo gli opportuni confronti, che quei resti umani trovati una dozzina di anni prima (e rimasti per tutto quel tempo in una cella frigorifera) appartenevano alla scomparsa Imane Laloua.
A quanto pare, nessuno aveva indagato seriamente sulla scomparsa di una ventiduenne di origine marocchina: è stato più facile strombazzare il solito allarme «sette religiose» per lasciare la questione agli «esperti» della SAS e dare a vedere che ci stessero lavorando, così da giustificare l’esistenza di un’unità di polizia la cui costituzionalità è stata a più riprese messa in discussione.
Risultato: quindici anni di dolore struggente e irreparabile per una madre e un ignominioso disonore per la Polizia di Stato, un’istituzione della Repubblica.
A quale scopo i contribuenti pagano questa squadra in divisa dai dubbi intenti? Per sfoderare ipotesi insulse o quanto meno scarsamente fondate nel tentativo di coprire dell'inefficienza?
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