giovedì 15 novembre 2018

Gli «anti-sette» e la magistratura: quando la libertà dei cittadini è a rischio

Come talvolta la magistratura venga fuorviata e indotta in errori che solo in seguito si rivelano clamorosi, è un fenomeno che a più riprese abbiamo esaminato e descritto nel nostro blog. Leggerezze investigative e sbagli giudiziari e che vengono favoriti vuoi dalla propaganda vuoi dalla consulenza tendenziosa dei presunti esperti «anti-sette».

Errori che hanno conseguenze perniciose, talvolta devastanti, per singoli individui o famiglie o intere comunità. A questi danni fanno da contraltare i profitti o il ritorno d’immagine di cui nel frattempo hanno goduto militanti «anti-sette» come gli psicologi Lorita Tinelli e Luigi Corvaglia (CeSAP), l’ex ragioniere in pensione Maurizio Alessandrini (FAVIS), la quasi criminologa Patrizia Santovecchi (ONAP) o il prete inquisitore don Aldo Buonaiuto, tutti a vario titolo referenti per la controversa «polizia religiosa» SAS (la «Squadra Anti-Sette» del Ministero dell’Interno).

Così è stato in ciascuno dei seguenti casi (per citare soltanto quelli che abbiamo trattato nel nostro blog e senza uscire dal territorio italiano):
- la persecuzione ai danni di Ananda Assisi;
- gli inesistenti Angeli di Sodoma e la visionaria relazione di don Aldo Buonaiuto;
- la presunta «santona» di Prevalle (Brescia), al secolo Fiorella Tersilla Tanghetti;
- la Comunità Shalom di Palazzolo (Brescia);
- l’associazione Arkeon (basilare, qui, l’influenza del CeSAP);
- le «sette sataniche» inventate di Saluzzo e Costigliole d’Asti;
- e infine, per lo meno per quanto riguarda un processo mediatico tenutosi ancora prima che le indagini venissero concluse, il caso di Mario Pianesi e «Un Punto Macrobiotico».

Proprio su quest’ultimo caso vogliamo riflettere ancora una volta per mettere in luce un aspetto che nei precedenti non ci era risultato chiaro mentre ora si è manifestato in tutta la sua evidenza.

Titolare delle indagini a carico dell’associazione «Un Punto Macrobiotico» è il cinquantottenne magistrato anconetano Paolo Gubinelli, personaggio pubblico (segue foto) il cui nome avevamo notato nell’articolo di «Cronache Maceratesi» in cui si riportava l’intervista ai figli di Mario Pianesi (ne abbiamo parlato in un nostro precedente post).


Fiducioso nell’imparzialità e coscienziosità della magistratura inquirente, il nostro Mario Casini aveva provato a sensibilizzarlo a proposito del linciaggio mediatico in atto ai danni di Mario Pianesi, inviandogli un’e-mail (datata 30 Ottobre) al suo indirizzo istituzionale presso la Procura di Ancona. Nessuna risposta, d’altronde esigue erano le aspettative e non si può certo pretendere che un pubblico ministero possa riscontrare tutta la corrispondenza che gli perviene, specie se inerenti a questioni tanto delicate.


Ma qualche giorno più tardi (6 novembre scorso), Paolo Gubinelli torna sotto le luci della ribalta per una requisitoria pronunciata a conclusione di un’inchiesta a carico di un 32enne di Senigallia (Ancona) accusato di aver ridotto in schiavitù la propria fidanzata.

In quella, Gubinelli avrebbe sposato la tesi secondo cui «seppur storicamente dichiarato incostituzionale il reato di plagio, la Procura di Ancona, in questo processo sembra intraprendere una battaglia perché si crei un precedente volto a dare una risposta a tutti quei casi in cui le donne sono vittime di uomini che agiscono plagiando, manipolando, inducendo a comportamenti di sottomissione».

Un’inquietante interpretazione che sembra voler travalicare il limite del codice penale attualmente in vigore, richiamando teorie controverse e accademicamente screditate come quella del «lavaggio del cervello» nei movimenti religiosi, per riproporre la reintroduzione del «reato di plagio» di fascista memoria.

Addirittura, Paolo Gubinelli avrebbe ritenuto di intraprendere «un percorso che vuole essere innovativo (…) citando Aldo Braibanti, l’unico uomo condannato per plagio nella storia d’Italia», asserzione paradossale se si considera quanto reazionaria fu quella sentenza rispetto alle avanguardie culturali e sociali che nel 1968 si batterono strenuamente per la libertà d’opinione e di espressione, come ben descrisse in questo articolo il giornalista Giuseppe Loteta.

Infine, Gubinelli avrebbe descritto «il ritratto del plagiatore dipinto dalla psicoterapeuta Silvia Croci» (di Forlì). Il che fa cadere ogni dubbio sulle fonti da lui ritenute attendibili per valutare simili casi: basti pensare che la monografia scritta dalla Croci a proposito di «plagio» non solo si accoda palesemente alla propaganda dei militanti contro i «movimenti religiosi alternativi», ma è persino citata come riferimento sul blog dell’associazione «anti-sette» FAVIS.

Non è dunque irragionevole, purtroppo, considerare il PM Paolo Gubinelli come un magistrato schierato con gli «anti-sette»; e l’andamento mediatico dell’inchiesta a carico di «Un Punto Macrobiotico» (con le assurde accuse che si tratti di una «setta» e la feroce campagna denigratoria a carico del suo fondatore Mario Pianesi) non fa che fornire spunti a conferma di tale ipotesi.

Di conseguenza, il pronostico sui due filoni di quell’indagine non può che essere pessimistico. Lampante, infatti, è il parallelo è con l’operato del procuratore Francesco Bretone di Bari, che nelle indagini a carico di Arkeon si era basato sugli acrobatici teoremi di Lorita Tinelli e del CeSAP, poi completamente screditate in tribunale.

Sarà probabile che fra qualche anno si debba dare conto dell’ennesima ingiustizia propiziata dagli «anti-sette»: così stando le cose, la libertà dei cittadini è ancora a rischio.

mercoledì 14 novembre 2018

La vera storia del «Tempio del Popolo»: Jonestown strumentalizzata per scopi politici

Sebbene abbiano continuato a incassare fragorose smentite sulla base di fatti documentati, gli «anti-sette» nostrani si ostinano a strombazzare la versione mediatica della strage di Jonestown.

Su tutti, le solite Lorita Tinelli e Sonia Ghinelli, esponenti rispettivamente di CeSAP e FAVIS, associazioni referenti in Italia della controversa organizzazione europea FECRIS.

Pur di propagandare la versione del «suicidio di massa», già ampiamente screditata, costoro si aggrappano ai fenomeni mediatici del momento come le recenti fiction o «documentari» realizzati per fare profitto.

L’ultima uscita a sproposito di questa serie è un post con cui Sonia Ghinelli condivide un articolo ricevuto dall’amica e collega «anti-sette» Janja Lalich (della quale abbiamo parlato in un recente post):



Addirittura, Sonia Ghinelli arriva a titolare il proprio post «massacri settari» riferendosi alla strage del Tempio del Popolo: niente più che la solita disinformazione «anti-sette».

Un’ottima occasione, offerta su un piatto d’argento al nostro Epaminonda, per prendere in considerazione anche questa ennesima mistificazione e metterla a nudo per ciò che sventuratamente è.

Buona lettura.


Per un più rapido riferimento, riepiloghiamo tutti i post precedenti della serie su Jonestown:

- [16 Maggio 2018] La vera storia del «Tempio del Popolo» (un compendio)
- [6 Giugno 2018] La vera storia del «Tempio del Popolo» (il massacro comandato)
- [12 Giugno 2018] La vera storia del «Tempio del Popolo» («anti-sette» sbugiardati)
- [22 Giugno 2018] La vera storia del «Tempio del Popolo» (quale «lavaggio del cervello»?)
- [24 Giugno 2018] La vera storia del «Tempio del Popolo» (una strage politica)



lunedì 12 novembre 2018

Le bugie «anti-sette» su Arkeon: il CeSAP e Giuseppe Borello

Sebbene altrove sul web si possa trovare molto materiale a proposito del caso mediatico-giudiziario che ha visto nel mirino il percorso di crescita personale Arkeon, anche nel nostro blog si è più volte lambito l’argomento.

Per tentare di riassumere quella tristissima vicenda in poche parole: Arkeon era il nome di un’associazione (partita sul finire degli anni '90) che proponeva dei seminari e degli studi di carattere filosofico, formativo e spirituale fondata e diretta da Vito Carlo Moccia, leader del movimento. A seguito di varie vicissitudini e delle denunce da parte di alcuni ex membri del gruppo (ecco di nuovo l’immancabile fattore dell’apostasia), Arkeon diventa oggetto di una asfissiante campagna mediatica cui presto si affiancano le azioni giudiziarie volute, favorite ed alimentate da alcuni esponenti «anti-sette», prima fra tutti Lorita Tinelli del CeSAP. Dopo vari processi celebrati in tutti i gradi di giudizio, l’intera impalcatura di imputazioni infamanti viene smontata pezzo per pezzo dall’attento vaglio della magistratura, con l’unica eccezione di una condanna (divenuta definitiva) per «abuso della professione» di psicologo dovuta al fatto che Moccia, pur essendo laureato in psicologia, non era iscritto all’albo professionale e dunque (in ossequio a una legge che attribuisce aprioristicamente agli psicologi talune prerogative) non aveva pieno titolo per condurre certe attività in seno al gruppo. Crollate miseramente, invece, tutte le altre accuse fra cui quella che era stata il cavallo di battaglia di Lorita Tinelli, ossia lo stigma di «psicosetta». Alle incongruenze e alle assurdità delle tesi portate avanti dalla psicologa pugliese nei confronti di Arkeon è stato dedicato un intero blog.

Smentita nella quasi totalità delle sue affermazioni contro Arkeon, di quando in quando Lorita Tinelli cerca ancora di rimescolare le carte e di far valere il clamore mediatico suscitato ai danni di Vito Carlo Moccia; tuttavia, a chi ha esaminato attentamente le carte o a chi conosce a fondo la vicenda, risulta evidente la sua malafede.

Nel solco «anti-sette» della mistificazioni dei fatti, è proprio dei giorni scorsi la notizia che sul canale televisivo 119 di Sky, «Crime+Investigation», verrà presto diffusa una trasmissione sulle «sette» nella quale verrà nuovamente presa di mira anche l’ormai cessata Arkeon e con essa il suo fondatore Moccia. Autore del «reportage» è un giornalista di nome Giuseppe Borello, il cui nome è emerso proprio un anno fa nel nostro blog (anche qui più di recente).

Il «servizio» è ovviamente confezionato nel tipico stile «anti-sette», con un sonoro inquietante, atmosfere cupe, espedienti per tentare di creare suspense, ecc. Ma ai bene informati non sfuggono le improprietà:


Un «servizio» televisivo che quindi perde immediatamente credibilità, porta avanti sulla linea tipica degli «anti-sette» che s’impernia sulla controversa ed ampiamente screditata teoria del «lavaggio del cervello» alias «manipolazione mentale».

Ma proseguiamo e vediamo qual è l’impalcatura del «reportage»:


Informazione corretta, ma solo in parte: infatti Giuseppe Borello (esattamente come fa Lorita Tinelli quando ne parla tramite il Web o in TV) non precisa qual è stato l’esito del processo rispetto a quelle esatte accuse, ovvero un’assoluzione piena e totale per tutti i reati contestati (truffa, violenza, induzione in stato di incapacità, violenza e maltrattamenti) a parte uno.

Alla condanna per «associazione per delinquere finalizzata all’abuso di professione di psicologo» – unico capo d’accusa che è stato oggetto di sanzione – viene dato risalto, mentre tutte le altre imputazioni per le quali Moccia e i suoi collaboratori sono stati prosciolti o assolti (con sentenze passate in giudicato, cioè definitive) vengono tenute sotto silenzio, come se non fossero mai esistite.

Ci si potrebbe anche domandare: a che pro rivangare una vicenda giudiziaria ormai conclusa a carico di un’associazione che nemmeno esiste più, quando fra l’altro l’unica pena che era stata comminata è stata pure estinta? Si sta cercando di protrarre il massacro mediatico? Si sta cercando di torturare la reputazione di Vito Moccia? In tal caso, la finalità sarebbe inequivocabile: il denaro, cioè l’utile generato dal riscontro eventualmente raccolto dalla trasmissione televisiva.


Moccia, oltre ad aver studiato molteplici discipline e tradizioni culturali, è laureato in psicologia e pedagogia presso l’Università di Fiume e si è qualificato anche presso un ateneo americano; dettagli, questi, che sono pubblicamente disponibili in Internet da diversi anni. Eppure il giornalista attacca e infama senza ritegno parlando di titoli «millantati», aggettivo piuttosto forte e pregnante.

Fra l’altro, il video di Giuseppe Borello parla anche delle testimonianze di qualche ex «adepto» di Arkeon. Chissà se si riferisce a quei testimoni che dichiararono di aver subito pressioni per «gonfiare» le proprie dichiarazioni e che poi, ovviamente, in tribunale hanno perso.

Di fronte al protrarsi della persecuzione mediatica ai danni di Vito Moccia perpetrata dagli «anti-sette», ci domandiamo se, dopo tanti anni di battaglie (per lo più vinte) in sede giudiziaria e dopo tanta amarezza, il leader di quella che un tempo fu un’associazione con diverse migliaia di iscritti possa avere ancora la forza di volontà per reagire a questa macchina del fango messa in atto, a fini di lucro, da militanti «anti-sette» e pseudo-giornalisti.

Su un’unica affermazione non possiamo che trovarci pienamente d’accordo con Giuseppe Borello:


Proprio così: forse la cricca «anti-sette» rappresenta davvero «uno dei lati più oscuri del nostro paese».

sabato 10 novembre 2018

Le assurdità e l’indifferenza della «Squadra Anti-Sette»: il caso di Imane Laloua

Nel nostro blog si è più volte parlato della «polizia religiosa» SAS (la «Squadra Anti-Sette» del Ministero dell’Interno) e del modo come viene strumentalizzata dagli esponenti «anti-sette» per fini quanto meno discutibili. Così è stato – solo per citare qualche esempio in ordine sparso – nei tristi casi di «Arkeon», degli inesistenti «Angeli di Sodoma» e di Mario Pianesi con «Un Punto Macrobiotico» (tuttora in pieno svolgimento).

Tant’è che questa strana unità di polizia è stata oggetto di ben tre interrogazioni parlamentari (prima, seconda e terza).

Nei giorni scorsi i «megafoni» mediatici, sempre affamati di contenuti (possibilmente sensazionalistici o scandalistici), hanno diffuso non tanto delle «notizie», ma delle ipotesi, riguardanti l’orribile morte di una giovane donna di Prato di origine marocchina, sparita nel nulla in giugno 2003, le cui ossa scarnificate furono ritrovate tre anni dopo da un camionista nei pressi di un’area di sosta sull’autostrada A1. Ben dodici anni più tardi, cioè solo qualche giorno fa, tramite l’esame del DNA la procura di Firenze ha accertato che quei resti umani appartenevano proprio a Imane Laloua. E questa è sostanzialmente l’unico dato di fatto che si possa considerare una notizia.


La prima stranezza che balza all’occhio è la tempistica: dodici anni per raccogliere e rendere pubblico l’esito di un esame del DNA. Dovrà pur esservi una spiegazione, ma gli articoli che strombazzano la «notizia» con titoloni ad effetto come «Uccisa e fatta a pezzi da una setta», «Imane (…) ammazzata da una setta satanica» e «L'ombra della setta satanica sulla morte di Imane» ben si guardano dallo svolgere un serio lavoro giornalistico ed approfondire un aspetto di tanto evidente rilievo.

Al contrario, danno per assodato un elemento (ossia il supposto colpevole, una presunta «setta satanica») che, invece, è solamente un’ipotesi, e nemmeno particolarmente plausibile.

Infatti, ben distanziato dal titolone roboante, tutti gli articoli riportano:

«la squadra "anti-sette" della mobile di Firenze ipotizza che la donna fosse stata vittima di un rito satanico»

o anche:

«la squadra "anti-sette" della mobile di Firenze ipotizzò allora, e fa la stessa cosa anche oggi, che la vittima di quell'orrendo trattamento fosse stata prima assassinata durante un rito satanico»

Qualche prova o elemento concreto in tal senso? Nessuno: solo congetture, in parte basate sul ritrovamento di un diario scritto da una sedicenne di Prato e risalente al 2004, in cui (sembra, stando a un articolo de «Il Tirreno») la giovane vagheggiava di cimiteri profanati e di un rito sacrificale ai danni di una vittima prelevata in strada. Racconti che, tuttavia, la ragazza precisò essere solo frutto della sua fantasia.

In poche parole, è lo stesso procedere deduttivo e indiziario che si è ben visto mettere in atto a don Aldo Buonaiuto (consulente della SAS) nel già citato caso dei presunti «Angeli di Sodoma»: basta leggere gli stralci della relazione del prete inquisitore e metterli a confronto con la realtà dei fatti, per capire a quali scioccanti mistificazioni ci si può trovare di fronte.

Ma non è tutto, vi è anche un’incongruenza nella datazione.

Sì, perché sebbene già agli inizi del 2005 si rumoreggiasse dell’eventualità che una qualche forza di polizia venisse specificamente ed espressamente deputata ad occuparsi di «sette religiose», di fatto l’istituzione concreta della SAS risale ai primi di novembre del 2006 e si deve ad una circolare emanata dall’allora capo della polizia Giovanni De Gennaro:


Ma se la SAS è ufficialmente partita in novembre 2006, non si capisce come sia possibile che:

«[il] 21 giugno 2006 [data del ritrovamento dei resti della povera Imane] la squadra "anti-sette" della Mobile di Firenze ipotizzò che la vittima (…) fosse stata prima assassinata durante un rito satanico».

La «Squadra Anti-Sette» quindi era già in attività prima di essere istituita?

O forse questi poliziotti, con un caso ancora irrisolto dopo quindici anni dalla sparizione della povera Imane, fuorviati da ideologie troppo aleatorie per potersi amalgamare con dei compiti investigativi concreti e scientifici, stanno cercando in ogni modo di non perdere la faccia avvalorando le loro ipotesi? Chissà, solo gli addetti ai lavori potrebbero rispondere a questa domanda.

D’altronde, proprio in questi giorni si assiste ad un evidente tentativo della SAS di porsi sotto le luci della ribalta: ieri a Roma ad un convegno presso l’Università LUMSA in presenza addirittura del Ministro dell’Interno Matteo Salvini, il 22 ottobre scorso a «Prima dell’Alba» su RAI Tre, qualche settimana fa ancora sui media per il caso di Mario Pianesi. Forse si prospetta la necessità di richiedere risorse e di dare a vedere che si sia prodotto qualche risultato?

Tant’è che fra i titoloni dei «megafoni» mediatici si legge: «Risolto il giallo sulla scomparsa di Imane Laloua». Risolto? E come? Con un’ipotesi traballante, forse?

Insomma, tornando al caso reale della giovane marocchina mutilata, da qualunque punto la si guardi, è lampante che l’asserto «ammazzata da una setta» è a dir poco pretestuoso, se non addirittura destituito di qualunque fondamento.

Piuttosto, era stata battuta la pista (ben più logica ed immediata) del marito della giovane?

Ripartiamo infatti dal giorno in cui la 22enne Imane sparisce nel nulla, nel settembre 2003:

«Erano nella loro casa di Montecatini e litigarono perché Zoubida [la madre] non voleva che Imane raggiungesse il marito a Prato. Si erano sposati tre anni prima, ma lui spacciava droga e continuava a entrare e uscire dal carcere. Un paio di mesi dopo, quando la madre andò a cercarla a Prato, il marito disse di non saperne niente e Zoubida capì che era successo qualcosa di grave.»

Quindi Imane era sposata con un uomo che si capisce fosse un pregiudicato continuamente coinvolto in affari di droga. Quali indagini sono state svolte per accertare eventuali responsabilità del marito? Possibile che non sapesse proprio nulla delle frequentazioni della moglie, che potrebbero averla trascinata in quella fatale tragedia?

È stata presa nella dovuta considerazione la versione resa dalla madre? Oppure il suo immenso dolore è stato completamente ignorato per privilegiare una «ipotesi» ben più «vendibile» in termini mediatici? Possibile che dei rappresentanti delle istituzioni mostrino una tale indifferenza?

Ci auguriamo che la magistratura possa accertare sul serio la verità dei fatti e rendere giustizia a una donna che ha perso la figlia a causa di un crimine efferato.

Ci auguriamo inoltre che gli inquirenti valutino con estrema attenzione tutti gli elementi a disposizione, senza lasciarsi trascinare dalle fake news «anti-sette».

sabato 3 novembre 2018

Gli «anti-sette» e la violenza: «Mi volevano salvare, mi hanno torturato»

Abbiamo esemplificato già numerose volte in precedenza, da questo blog, quale grado di incoerenza possano raggiungere taluni esponenti «anti-sette»: per esempio, allorquando danno a vedere di voler difendere i diritti di certe minoranze come gli omosessuali o LGBT salvo poi portare sugli allori chi invece non ha mai rinnegato pratiche violente come la «deprogrammazione». Oppure quando da un lato disapprovano con enfasi (e peraltro giustamente) lo «stigma» a cui talora vengono sottoposti i gay, e poi dall’altro avallano o conducono in proprio una campagna per ghettizzare movimenti religiosi da loro considerati «non convenzionali» oppure pratiche e credenze che si discostano dalla tradizione locale.

Questo in particolare è il paradosso sovente espresso da Sonia Ghinelli di FAVIS, chiacchierata associazione «anti-sette» con sede a Rimini che, a dispetto delle sue molteplici contraddizioni e delle clamorose smentite di cui è stata oggetto, risulta essere a tutt’oggi referente della «polizia religiosa» SAS (la «Squadra Anti-Sette» del Ministero dell’Interno) nonché federata alla controversa sigla europea FECRIS.

Qualche giorno fa abbiamo notato nuovamente quella tipica antinomia di Sonia Ghinelli, in questo post (pubblicato, come sempre in incognito, dal suo anonimo profilo «Ethan Garbo Saint Germain»):


Nell’articolo richiamato dal post di Sonia Ghinelli, si legge:

Il concetto base (…) è che l’omosessualità è un vizio, una malattia: l’obiettivo è la guarigione. Se questa non avviene, allora «meglio il suicidio».

Per inciso: un asserto, questo, che ricorda un po’ il velato raffronto cui sembrava alludere Luigi Corvaglia fra le credenze «alternative» e la tossicodipendenza, del quale abbiamo parlato in uno dei nostri ultimi post.

Negli anni ’50 e ’60 la terapia di conversione consisteva spesso in elettroshock, terapia dell’avversione (dove certi stimoli vengono abbinati a sensazioni disgustose o di paura) e lobotomia.

Oggi le torture fisiche sono state sostituite da quelle psicologiche. Alla LIA, per esempio, è comune la pratica del finto funerale ovvero la messa in scena della morte di uno dei partecipanti, sdraiato in una bara e con intorno candele accese, mentre i compagni leggono il suo epitaffio raccontando la sua discesa nell’Hiv e poi nell’Aids.

Ma questi sono esattamente i metodi coercitivi usati da certi «anti-sette» come Rick Ross (esponente dell’ormai defunto CAN di cui abbiamo parlato nella serie di contributi di Epaminonda sulla strage di Waco), o dalla (fu) AFF, American Family Foundation, in seguito evolutasi e sotto la nuova denominazione di ICSA.

E chi collaborava intensamente con l’AFF negli anni ’90 dello scorso secolo? Una figura fra le molte: Janja Lalich, la sociologa amica di Lorita Tinelli del CeSAP, sostenitrice della controversa teoria del «lavaggio del cervello» e ritenuta un modello di riferimento proprio dalla Ghinelli.

Addirittura in una recentissima intervista la Lalich ricorda quella metodologia e, pur precisando che è stata «screditata» anche perché «il rapimento è un atto illecito», non manca di specificare che «spesso funzionava» e non ne prende realmente le distanze come razionalmente ci si aspetterebbe. Esattamente come faceva già verso la fine degli anni 1990, quando cercava di differenziarsi da quelle pratiche che il più delle volte si trasformavano in gravi abusi, sostenendo che la sua attività attuale non andava definita «deprogrammazione» ma piuttosto «educazione».

In the 1960s, ’70s and ’80s, families often hired so-called deprogrammers to kidnap and hold cult members against their will. While that often worked, abduction is illegal, and the technique was discredited after a Washington man successfully sued his deprogrammer in 1995.

Negli anni 1960, ’70 e ’80, spesso le famiglie ingaggiavano dei cosiddetti deprogrammatori per rapire e segregare i membri delle sette. Sebbene ciò spesso funzionasse, il sequestro di persona è illegale e quella tecnica fu screditata dopo che nel 1995 un cittadino di Washington vinse in tribunale contro l’uomo che l’aveva deprogrammato.


Quindi Sonia Ghinelli con una mano sostiene di difendere i diritti di una minoranza come quella LGBT, con l’altra mano appoggia i deprogrammatori e i loro abusi.

Quasi stupisce che Maurizio Alessandrini, avendo da vent’anni come mentore una Ghinelli che approva le metodologie degli estremisti «anti-sette» americani, non abbia tentato anche lui di far segregare e «deprogrammare» il figlio Fabio, magari rivolgendosi proprio a qualcuno di quei sedicenti «esperti».

Per quanto è dato sapere, fortunatamente non è mai accaduto nulla del genere; inoltre, in Italia non si registrano da almeno trent’anni casi di «rieducazione» violenta ai danni di devoti di movimenti religiosi alternativi.

L’ideologia intollerante e discriminatoria, però, a quanto pare è dura a morire.