sabato 19 gennaio 2019

Contributo esterno - l’era della «post-verità» religiosa

Dal nostro corrispondente esperto in questioni estere, Epaminonda (ma con una piccola rifinitura del solito, impertinente Mario Casini), ecco un pregevole contributo a proposito del ruolo dei giornalisti non solo nella propaganda «anti-sette» di cui ci occupiamo in questo blog, ma anche e soprattutto nella diffusione (prezzolata) di «informazioni» dalla scarsa attendibilità, che in ultima analisi rovinano la categoria stessa dei reporter e deturpano la libertà di stampa.

Conosciamo bene le conseguenze (talvolta disastrose) del tamtam mediatico sul presunto «allarme sette» ai danni delle vite di individui o di intere famiglie facenti parte di gruppi spirituali «non convenzionali», ma oltre a ciò deve essere considerata l’influenza dei disinformatori di «professione» rispetto al vasto pubblico e agli scenari socio-politici del terzo millennio. 




di Epaminonda
(corredo immagini: Mario Casini)


L’ERA DELLA “POST-VERITÀ” RELIGIOSA


Il 16 gennaio è stato ufficialmente proclamato come la giornata nazionale della libertà religiosa, negli Stati Uniti.

In Italia invece assistiamo alla nascita di un forte movimento di revisionismo religioso che fa perno su un altro fattore di grande attualità: la disinformazione e la corrente della “post-verità”.

Si tratta di un fenomeno riconosciuto anche dall’Ordine dei Giornalisti e diventato tema ufficiale di aggiornamento per i suoi iscritti. Un tema che evidentemente un giornalista come Carmine Gazzanni, a un anno esatto dall’ammissione alla categoria dei professionisti, non ha avuto il tempo di studiare.


In che cosa consiste il fenomeno della post-verità e come sta inquinando l’editoria italiana? Che relazione può avere con libertà fondamentali come quella di religione e di pensiero? Quale effetto tossico produce nella vita sociale e politica di un Paese democratico?

Attingiamo al materiale informativo ufficiale, prodotto dallo stesso Ordine dei Giornalisti, che Gazzanni proprio non deve avere avuto il tempo di leggere perché evidentemente troppo impegnato nelle proprie attività di propaganda e disinformazione religiosa.

Il corso varato dall’Ordine s’intitola: “Strumenti di verifica delle notizie e contrasto alle fake news”: è curato da Alberto Puliafito, giornalista professionista e direttore di Slow News, una testata digitale che si prende il tempo di verificare le fonti e le informazioni prima di pubblicarle.


Riporto dal sito Slow News:

La nostra missione è duplice.
Da una parte, nella testa, rallentare. Perché rallentare significa usare meglio il cervello, abbassando la velocità e la quantità, aumentando la qualità. Dall’altra, nella realtà, costruire un campo da gioco in cui poter tornare a fare il nostro lavoro in maniera libera e sostenibile sul serio, un campo da gioco in cui radunare una comunità di lettori con cui avere un rapporto onesto, diretto, proficuo per entrambi.

Puliafito rappresenta un nuovo trend di giornalismo “sostenibile” che viene promosso anche dall’Ordine nazionale in contrapposizione al giornalismo spazzatura delle “junk news” che oggi imperversa e che permea non solo la televisione, i quotidiani e l’editoria online, ma persino i libri (come dimostrato da Carmine Gazzanni e Flavia Piccinni con il loro "Nella Setta").

Il giornalismo spazzatura, come viene spiegato nel materiale dell’Ordine, ha finalità unicamente economiche. Consiste nel colpire il lettore o l’ascoltatore con titoli e frasi d’effetto che lo inducano a fermarsi, a cliccare oppure a comperare il prodotto editoriale, senza alcun rispetto della correttezza di quanto affermato. Si parla di “post-verità” perché la verità viene dopo, al momento dell’eventuale smentita che, semmai pubblicata, rimane invisibile alla maggior parte delle persone che avevano assorbito la bufala in origine.

Diventa quindi una corsa a chi le spara più grosse nel disperato tentativo di portare acqua al proprio mulino oppure a quello dei propri “sponsor”, senza alcun riguardo per il lettore che invece il giornalista sarebbe (in teoria) impegnato a servire mediante notizie utili. È un vero e proprio modello di business, che peraltro finora avevamo visto circoscritto prevalentemente al mondo della notizia veloce, al lancio di agenzia oppure al commento su Twitter che vive nello spazio di un istante e che non permette alcuna riflessione perché è istintivo, fulmineo e soprattutto “virale”.

Non lo avevamo mai visto applicato a un prodotto editoriale “lento” come un libro, dove c’è tutto il tempo per verificare le proprie affermazioni e controllare i fatti. Ma non c’è mai limite al peggio, così Carmine Gazzanni e Flavia Piccinni si mostrano all’avanguardia nella strumentalizzazione delle junk news.

Ma vediamo che cosa ne pensa l’Ordine dei Giornalisti.

Partiamo innanzi tutto dalla constatazione, ormai condivisa e ufficiale, che la post-verità e le fake news sono unicamente un meccanismo per fare soldi. Non c’è nulla di altruistico o di professionalmente etico. Siamo molto lontani dai parametri (sacri) della libertà d’informazione. Il “junk journalism” (letteralmente “giornalismo spazzatura”), di cui Gazzanni è chiaramente campione, mira unicamente a produrre un beneficio personale per chi lo impiega e per i suoi “padroni”. Tale beneficio può avere connotazioni immediatamente visibili, come l’aumento del fatturato pubblicitario, oppure meno immediate, come nel caso della lobby politica e della manipolazione sociale. Non importa che forma assuma, il risultato finale è sempre e solo unicamente di tipo economico. Inoltre si tratta di un beneficio unidirezionale: favorisce unicamente chi fabbrica la notizia falsa e mai chi la consuma.

D’altro canto la nozione stessa di “virale” implica una connotazione malsana e Gazzanni non è sicuramente il primo e nemmeno l’unico a far ampio ricorso alla “post-verità” come elemento portante del proprio lavoro. Non a caso l’Oxford Dictionary ha scelto “post-truth” come parola dell’anno per il 2016.

Ricordiamo il caso esploso appena un mese fa in Germania, quando la direzione del famoso settimanale Der Spiegel ha “confessato” che uno dei suoi giornalisti di grido, il 33enne pluripremiato Claas Relotius si inventava di sana pianta le notizie che pubblicava dalle loro pagine. Sette anni di “nulla” retribuito che gli ha garantito notorietà e vantaggi personali, per non parlare dei suoi appelli online a fare donazioni che finivano poi sul suo conto personale.


Ma che cosa significa esattamente post-truth? Prendiamo proprio l’Oxford Dictionary e leggiamo:

denota o si riferisce a circostanze in cui i fatti oggettivi sono meno influenti nel formare l’opinione pubblica di quanto lo siano l’appello ai convincimenti personali e all’emozione.

In pratica si colpisce la persona con un commento o una notizia allarmante in modo da stimolare una reazione emotiva, “di pancia”, che faccia leva su preconcetti e idee fisse che sono state instillate nella persona in precedenza.

In buona sostanza, è l’applicazione del controllo mentale al mondo dell’editoria con il fine di produrre benefici economici diretti o indiretti e spesso occulti. È un trend talmente tossico che finisce per ledere non solo il lettore che ne viene bersagliato, ma lo stesso autore.

Il problema sta diventando talmente rilevante anche per la sopravvivenza dei giornalisti italiani da aver spinto l’Ordine dei Giornalisti ad istituire un corso nella speranza di riformare una categoria altrimenti destinata all’oblio.

Infatti la post-verità presenta diverse controindicazioni. Innanzi tutto la verifica dei fatti oggi è alla portata di chiunque. Il “giornalismo partecipativo” o “citizen journalism” sta spingendo sempre più la produzione di notizie e la verifica dei fatti nelle mani dei lettori stessi (oggigiorno tramite Internet è possibile verificare abbastanza rapidamente la fondatezza di un’affermazione). In seconda battuta, crea un’immagine di sfiducia generale nei confronti della stampa e alimenta ancora di più il “fai-da-te” informativo (che non sempre dà buoni esiti).


Perciò quando vediamo affermazioni impossibili e infondate come quelle disseminate nel libro "Nella Setta" (o nella testa?) di Carmine Gazzanni e Flavia Piccinni, comprendiamo che non si tratta semplicemente di sbadataggine o pigrizia, bensì di premeditazione. Sappiamo inoltre che stiamo osservando il lato oscuro del giornalismo italiano che viene ormai stigmatizzato dallo stesso Ordine e che sta danneggiando non solo la credibilità dell’autore, ma anche l’intera categoria.

La questione sta diventando talmente preoccupante per gli editori seri e per lo stesso Ordine che è cambiato il significato della frase “bucare una notizia” (in passato prendere un “buco giornalistico” significava non dare una notizia che altri avevano diffuso). Oggi, come ci spiega Puliafito, significa “dare una notizia falsa”. Il vero giornalista professionista moderno si prende il tempo necessario per verificare le proprie fonti. Le deve verificare in maniera indipendente senza far affidamento sul lavoro di altri. Infatti non è possibile creare un’autorità che sia depositaria della totale verità come alcune organizzazioni anti-sette vorrebbero farci credere. Ciascuno deve fare le proprie verifiche e assicurarsi di non dire stupidaggini e di non raggirare il pubblico.

Questo è il nuovo standard di professionismo richiesto dall’Ordine dei Giornalisti e dal mercato stesso. Chi non si conforma è destinato a fallire.

Forse è tempo che Carmine Gazzanni e Flavia Piccinni tornino a scuola per imparare il loro mestiere?

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