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venerdì 15 giugno 2018

Gli «anti-sette» fanno spendere denaro pubblico (e privato) per foraggiare i loro giornalisti?

In questo post riprendiamo una riflessione a proposito di un’ulteriore sfaccettatura del dispendio di risorse pubbliche ad opera (o in favore) degli «anti-sette» e della loro propaganda ideologica. Diciamo «ulteriore» per distinguere rispetto all’utilizzo della macchina dello stato, in qualche caso drammaticamente deleterio, che avviene invece sul piano giudiziario o sul piano della reputazione anche commerciale. Qui invece parliamo dell’aspetto squisitamente mediatico e giornalistico.


Già in precedenza e a più riprese, si è detto di come taluni giornalisti (ne elenchiamo qualche nome nella nostra pagina di riepilogo) siano palesemente schierati con qualche gruppo o esponente «anti-sette» (come Carmine Gazzanni, Andrea Sceresini e Giuseppe Borello), quando non personalmente e direttamente coinvolti in una militanza attiva (come Stefano Pitrelli e Gianni Del Vecchio) contro i «nuovi movimenti religiosi».


Di tali connivenze e collaborazioni ci informano loro stessi in post e commenti pubblici facilmente reperibili in Internet, come questo (solo per citare un esempio, ma ve ne sarebbero anche altri):


Il minimo che si possa dire di questi giornalisti è che non possono essere obiettivi: pretendono di descrivere e raccontare vita e opere di interi movimenti religiosi (parliamo di gruppi con migliaia o decine di migliaia di aderenti) basandosi sulle indicazioni di tre o quattro persone che da quei movimenti sono stati cacciati via o se ne sono andati sbattendo la porta e che quindi – come anche un demente potrebbe capire – potranno solo parlarne male o sottolinearne le caratteristiche negative. Difficile confutare tale nostra affermazione, che è ovvia di per sé.

Eppure la deontologia giornalistica di questi sedicenti «reporter d’inchiesta» li vorrebbe «fornitori di un'informazione completa, obiettiva, imparziale ed equilibrata» come afferma ampia giurisprudenza della Corte Costituzionale, particolarmente la sentenza del 24 marzo 1993 nr. 112, secondo la quale «il “diritto all'informazione” garantito dall'art. 21» si richiede che «sia qualificato e caratterizzato [...] dall'obiettività e dall'imparzialità dei dati forniti». Situazione evidentemente lontanissima dal caso di specie.


Fra l’altro, facendo qualche ricerca un po’ più approfondita su alcuni di loro, come i succitati Sceresini e Borello, si scoprono persino dei curiosi «altarini» che essi cercano di passare sotto silenzio ma qua e là affiorano grazie a siti che si occupano di «debunking» o giornalisti indipendenti che affermano di voler differenziarsi dalla corrente mediatica prevalente. Veniamo così a sapere che i giornalisti «anti-sette» mentre con una mano fanno tanto chiasso sui «culti distruttivi» e lanciano allarmi per le loro presunte nefandezze, nel frattempo manipolano la contabilità dei soldi che ricevono tramite raccolta fondi (online, quindi da parte del popolo di Internet) per finanziare le loro «inchieste», salvo poi produrre dei risultati decisamente discutibili sotto il profilo squisitamente professionale.

Andrea Sceresini

Eppure costoro vengono pubblicizzati sulla TV di stato, quella stessa RAI in cui s’intrecciano collegamenti di chiara matrice «anti-sette»; quella stessa RAI che dovrebbe operare sotto la garanzia della laicità dello stato, e invece batte la grancassa per il controverso «reato di plagio» di fascista memoria.

Per cui ci domandiamo: dove finiscono i soldi dei contribuenti che lo Stato spende per sovvenzionare la RAI?

Finiscono nelle tasche dei «consulenti» di Gazzanni, come Pier Paolo Caselli (la cui assoluta inconcludenza è un fatto oramai conclamato), come Lorita Tinelli (che in fatto di religione non detiene alcuna qualifica di tipo accademico e lo si vede bene dai risultati del suo sovrabbondante eloquio) o come Sonia Ghinelli (la quale addirittura pare vantarsi della sua assoluta assenza di titoli di studio in materia di spiritualità, e infatti viene clamorosamente smentita quando discetta di «lavaggio del cervello» ed altre simili amenità)?

Finiscono nelle tasche dei «consulenti» di Pitrelli e Del Vecchio, come Toni Occhiello, Francesco Brunori (alias Italo) o Luciano Madon che sono null’altro se non degli apostati inaciditi, facinorosi e (a nostro modesto parere) degli istigatori di odio?

Quanti cittadini italiani sono soddisfatti di ritrovarsi il canone RAI da pagare «comodamente» nella bolletta della corrente elettrica per ricevere un «servizio pubblico» di tal fatta?

Non crediamo siano molti: al contrario, abbiamo fornito già in precedenza elementi concreti per dimostrare il fatto che la gran maggioranza della gente non condivide affatto l’operato degli «anti-sette» e nemmeno la loro ideologia. Tutt’altro: le persone aderiscono per lo più al principio del «vivi e lascia vivere» e al concetto che laddove vengano commessi dei reati, questi vanno accertati e giustamente sanzionati in quanto tali, senza dover montare processi alle intenzioni e creare nuove fattispecie di reato che puniscano credenze e ritualità ritenute «pericolose» da qualcuno solo sulla base di pregiudizi o lamentele.

E che dire delle aziende che acquistano spazi pubblicitari costosissimi sulle TV private? Anche loro sono d’accordo a finanziare simili attività propagandistiche? Noi non siamo affatto di quest’idea.

Tanto più che le attività «anti-sette» ledono i diritti di tutti, non solo delle minoranze religiose: la libertà di credo, la libertà di pensiero e la libertà di espressione non sono appannaggio di qualche sedicente «esperto», sono invece diritti non negoziabili di tutti i cittadini, di ogni età, razza e religione.

sabato 20 gennaio 2018

Il business «anti-sette» asservisce anche i giornalisti

Da questo blog abbiamo spesso acceso i riflettori (e continueremo a farlo) sulle false accuse e «notizie» fasulle prodotte o manipolate dagli «anti-sette».

Ma di quando in quando succede che qualche giornalista, forse per scarsità di «materia prima», va a pescare dal calderone dei vari CeSAP, FAVIS, ONAP, anti-TdG, ecc., per accatastare qualche «succosa» storia di presunti «abusi» e mettere assieme qualche centinaio di battute per un buon «pezzo» da rivendere al miglior offerente o al primo che è disposto a comprarlo (ve ne sono stati parecchi esempi anche recenti ed eclatanti).

Quando poi la catasta di scartoffie è sufficientemente consistente o può essere propinata con un’adeguata campagna di marketing, il giornalista di turno si improvvisa scrittore e cerca di piazzare la maggior quantità possibile di copie nelle librerie e fra il vasto pubblico. Si sa, gli affari sono affari (come nel caso di Michelle Hunziker).

Poco importa se il business viene fatto alle spalle di persone le cui vite vengono irrimediabilmente infangate o addirittura completamente devastate per il profitto o per l’interesse di qualcun altro.

In taluni casi, il giornalista di turno ha buon gioco a prendere di mira un’intera comunità spirituale o religione di minoranza, specialmente se in rapida crescita fra i giovani, additandola (tanto per cambiare) come «setta» o «culto distruttivo» (giusto per inquadrare bene sin da subito un contesto «torbido») e poi dando fondo a tutto il repertorio delle chiacchiere da comari, allarmismo e credulità popolare tipici degli anatemi «anti-sette», meglio se «dimostrati» dalla «testimonianza» di qualche ex membro del movimento, così il tutto si ammanta di una propria «credibilità».

Credibilità dello stesso valore che avrebbe domandare a una moglie, in lite con il marito da cui si è separata dopo molti anni di matrimonio, qual è la sua opinione dell’ex coniuge. Più o meno come chiedere a un fervido interista il suo parere su uno juventino, o viceversa: ci si può forse aspettare un esame equanime, sereno ed imparziale?

Non sempre si riesce a cogliere quanto sia assurdo considerare attendibile la testimonianza di un ex membro inviperito (esempio lampante è quello di Toni Occhiello), eppure è cosa di un’ovvietà disarmante.

Ma i giornalisti hanno bisogno di fare sensazione, e così scrivono articoli come questo:


Il pezzo è di Giovanni Del Vecchio e Stefano Pitrelli, già autori di un controverso libro contro numerosi movimenti religiosi.

Su quell’articolo, l’Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai ha diffuso un comunicato stampa di replica che suggeriamo di leggere per intero e che peraltro mostra modi ben più rispettosi di quelli adottati dai giornalisti nei loro confronti.

Ma al di là della voce ufficiale del gruppo religioso, sono forse ancora più interessanti i commenti all’articolo contro la Soka Gakkai riportato dal sito «Huffington Post»: diretti, privi di mediazione, spontanei e schietti, qua e là frizzanti quando non addirittura focosi, i contributi dei lettori rendono bene l’idea di quanta gente viene riguardata dall’intolleranza religiosa portata avanti da articoli di tale fatta. Un’offesa non solo alla spiritualità, ma al giornalismo stesso.

Eccone uno:


Altri tre:


Naturalmente, qua e là nella discussione, non mancano interventi del «solito» Toni Occhiello, che esercita il suo ruolo di «troll» come ben descritto in un nostro precedente post:


Gli utenti, correttamente, lo ignorano del tutto e continuano ad esprimere liberamente la propria opinione:


Significativa la quantità degli interventi a favore della Soka Gakkai, di tenore ed ispirazione piuttosto differenti l’uno dall’altro.



Infine, addirittura una smentita nel cuore stesso dei «contenuti» proposti dai giornalisti:


A fronte di simili reazioni, cosa hanno fatto Giovanni Del Vecchio e Stefano Pitrelli? Cosa ha fatto la redazione di «Huffington Post»? Nulla, il nulla assoluto: non delle scuse, non delle precisazioni, niente di niente.

Ecco il rispetto dei giornalisti «anti-sette» nei confronti delle minoranze religiose.