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martedì 16 ottobre 2018

Propaganda «anti-sette» e istigazione all’odio: il caso di Salvatore D’Apolito

La scorsa settimana sui giornali e le pagine Internet di mezza Italia è stato raccontato il caso di Salvatore D’Apolito, artigiano piastrellista originario della provincia di Foggia ma residente a Villasanta (Monza e Brianza), che il 27 settembre scorso a Negrone di Scanzorosciate (Bergamo) ha tentato di uccidere la moglie, Flora Agazzi, esplodendo diversi colpi di pistola e ferendola gravemente. Questo atto sanguinario, inclusa la sua premeditazione, è stato confessato interamente presso il comando dei Carabinieri di Bergamo una decina di giorni più tardi. D’Apolito si sarebbe dovuto incontrare con la Agazzi in tribunale all’inizio di ottobre per la causa di separazione: i due erano sposati oramai solo formalmente, poiché sul loro matrimonio, durato 28 anni, era di fatto calato il sipario.


Questo video è tratto dall’intervista esclusiva, rilasciata da D’Apolito appena prima di andare a costituirsi in caserma e confessare il suo reato, trasmessa il 10 ottobre scorso da RAI Tre a «Chi l’ha visto?». Il colloquio con il giornalista, svoltosi in strada in presenza dell’avvocato di D’Apolito, si conclude con un pianto di disperazione.


Con tutto il rispetto per il dolore di Salvatore D’Apolito e per le turbe che possono averlo condotto a un gesto tanto sconsiderato, senza cinismo ma piuttosto con spassionata obiettività, si potrebbero interpretare quel pianto apparentemente liberatore come una sorta di «lacrime di coccodrillo» e quella pubblica confessione come una mossa tattica messa in atto per affiancare la sua costituzione volontaria presso le forze dell’ordine, così da rendere credibile il suo presunto pentimento e – con l’occasione – additare terze persone (completamente estranee a una vicenda del tutto privata) come colpevoli dei loro contrasti. Un’accusa/scusa che, peraltro, non reggerebbe neanche al più elementare esame della questione.


Leggendo gli articoli che sono stati via via pubblicati dai media sul caso, quello che fa specie non è tanto che Salvatore D’Apolito cerchi di giustificare il proprio crimine, ma piuttosto il fatto che (scandalosamente) i giornalisti diano spazio alla sua scenata senza evidenziare quanto siano inaccettabili le scuse di un uomo divenuto un criminale e i suoi tentativi di incolpare qualcun altro. In contesti diversi, dove non fosse stata coinvolta una presunta «setta», non avrebbero invece tuonato contro «l’ennesimo femminicidio»? Non avrebbero forse chiamato in cause associazioni come Doppia Difesa, pubblicizzandone l’ipotetica utilità in casi di «violenza di genere» come questo?


Tentare di uccidere la propria consorte è un reato grave, ma se la donna è «colpevole» di aver aderito ad un movimento religioso non tradizionale (astutamente e perfidamente etichettato «setta») allora la si può anche punire attentando alla sua vita, e il criminale viene pure commiserato perché soffriva di turbe mentali e di solitudine «per colpa della setta».

Non si parla, invece, del fatto che la ex moglie pretendeva gli alimenti e che questo era esattamente l’oggetto della causa che si sarebbe celebrata in tribunale qualche giorno dopo il tentato omicidio.

Quando poi il giornalista della RAI fa notare a D'Apolito che il movimento di cui sta parlando non sembra affatto essere una «setta satanica» come lui va sostenendo, la sua risposta è questa:


Una proposizione, quella di Salvatore D’Apolito, che ci ricorda inevitabilmente le chiassose affermazioni degli «anti-sette» di AIVS.

Avendo già documentato in precedenza in maniera più che esauriente il modo in cui gli «anti-sette» fomentano l’odio e generano allarmismo per lo più ingiustificato, dileggiano e offendono i gruppi spirituali, minacciano e intimidiscono chi rende noto il loro discutibile operato, non approfondiremo nel presente post tale tematica, dandola per assodata. D’altronde, è sufficiente leggere un po’ di altri post di questo blog per constatare il fenomeno vagliandone l’abbondante documentazione (è possibile utilizzare la casella di ricerca sulla destra inserendo parole chiave quali «odio», «intolleranza», «stigma», «razzismo», «fake», ecc., oppure scorrere le pagine di riepilogo nel menù in alto, a partire dalla pagina «Notizie e aggiornamenti» che elenca tutti i post).

Assistiamo invece, in questo torbido caso di tentato omicidio, all’esito che quella veemente propaganda potrebbe aver avuto nell’influenzare un uomo sconvolto dalla rottura del suo matrimonio e turbato dall’impellente necessità di trovare un capro espiatorio per le sue angosce. Ecco infatti come lo descrive il suo avvocato:


Che vi possa essere un coinvolgimento diretto di AIVS nella genesi di questa vicenda di cronaca nera sarebbe ovviamente pretta supposizione, tuttavia vi sono alcuni fatti. Il primo, alquanto significativo, è che a nemmeno 48 ore dalla trasmissione di RAI Tre, l’associazione «anti-sette» presieduta da Toni Occhiello (conterraneo di Salvatore D’Apolito) si è affrettata non solo a pubblicare alcuni post per commentare l’accaduto (senza nemmeno una parola per condannare il tentato omicidio di una donna!) e per rafforzare le speciose motivazioni addotte dal reo confesso, ma anche (addirittura) a inviare una lettera alla RAI per ribadire le proprie accuse nei confronti della confessione religiosa presa di mira dal (quasi) assassino della ex moglie.


Per inciso, è davvero singolare la richiesta di soddisfare un loro presunto «diritto di contro informazione»: a quale legge farebbero riferimento? E perché si sentono tanto riguardati dal caso da dover essere interpellati? Forse conoscevano il soggetto?

Non solo: nella lettera alla RAI, il vicepresidente di AIVSFrancesco Brunori (alias «Italo»), fornisce un indizio ancora più cospicuo del fatto che AIVS possa avere direttamente o indirettamente fomentato in Salvatore D’Apolito quell’odio antireligioso, tanto immotivato quanto strumentale, che lo ha poi indotto a premeditare e compiere un tentato omicidio incolpandone infine (pubblicamente!) una comunità religiosa pacifica e ben integrata nella società italiana.

Proviamo a riguardare questo stralcio:


Nel seguente passaggio della lettera di AIVS, Francesco Brunori tenta di dimostrare la presunta veridicità delle parole di Salvatore D’Apolito riprendendo una delle solite argomentazioni addotte da AIVS ai danni della confessione religiosa in questione:


Si noti, fra l’altro, come sia lampante che D’Apolito sta cercando di snocciolare qualcosa che deve aver memorizzato in precedenza, quasi come se avesse preparato quella specifica argomentazione per l’intervista. In tal caso, dove ha reperito quelle «informazioni» tendenziose?

Da qualunque parte la si osservi, la situazione in cui versa Salvatore D’Apolito è evidentemente drammatica. Risulta evidente dal suo comportamento, dal suo aspetto e dai segnali che chiaramente si colgono dal suo discorso. Del resto, lo conferma anche il suo legale:


Se non si fosse reso responsabile di un crimine premeditato, potrebbe muovere a compassione.

Purtroppo, però, l’individuo la cui giustificazione dichiarata («È colpa di quella setta se ho sparato alla mia ex moglie») AIVS sta cercando di sostenere ed avvalorare è palesemente uno squilibrato.

Proprio questo fatto apre un ulteriore, inquietante interrogativo.

A che tipo di individuo tentano di ricorrere gli «anti-sette» per creare i loro «casi» fasulli contro i nuovi movimenti religiosi ingiustamente denominati «setta» o «setta satanica»?

Teniamo presente che già fra gli amministratori della/e pagina/e Facebook di AIVS vi sono persone affette da disturbo mentale conclamato (non perché lo diciamo noi, ma perché lo dichiarano essi stessi pubblicamente):


Ci sarebbe altro da dire in proposito, ma non ci pare nemmeno giusto seguire il cattivo esempio di AIVS nel loro mettere in piazza fatti privati afferenti alla salute dei loro accoliti.

Abbiamo soltanto messo in luce l’immoralità di chi, pur di osteggiare i nuovi movimenti religiosi, sfrutta e strumentalizza vicende tumultuose e genera un’influenza negativa in soggetti già in difficoltà.

E nemmeno si tratta soltanto di immoralità: il profilo potrebbe essere anche ben più grave.

Sarebbe interessante che la magistratura esplorasse a fondo questo aspetto cui ora accenneremo, avendo in corso un’indagine penale.

Dice infatti la legge italiana ben riportata ed esemplificata dal sito «brocardi.it»:

«Chiunque pubblicamente istiga a commettere uno o più reati è punito, per il solo fatto dell'istigazione con la reclusione da uno a cinque anni, se trattasi di istigazione a commettere delitti.»

Per istigazione s’intende: «qualsiasi fatto diretto a suscitare o a rafforzare in altri il proposito criminoso di delinquere o di perpetrare i fatti illeciti indicati».

«La norma è posta a tutela dell'ordine pubblico, in particolare punendo quelle condotte che, pur non determinando la commissione di un reato specifico, provocano nella collettività inquietudine ed allarme sociale.»

Sottolinea infine l’enciclopedia Treccani:

«Una differenza notevole nel trattamento delle varie ipotesi di istigazione si ha nel caso in cui sia stato effettivamente commesso il reato ovvero uno dei reati istigati. Nel caso di pubblica istigazione, che costituisce un reato autonomo, l'istigatore dovrà rispondere anche di concorso nel delitto eventualmente commesso dall'istigato.»

Seguendo questa chiave di lettura, possiamo osservare un ulteriore paradosso: gli «anti-sette» da un lato accusano lo Stato di non tutelare i cittadini perché non interviene prontamente gettando in gattabuia tutti gli appartenenti ai gruppi (religiosi e non) che loro detestano, dall’altro lato si sentono al sicuro perché lo Stato non li ha mai perseguiti per istigazione all'odio, diffamazione, calunnia, ecc. Si potrebbe obiettare che lo Stato ha ben altri impegni da affrontare senza doversi occupare dei falsi allarmi degli «anti-sette» e che la loro istigazione all'odio trova già pieno appagamento grazie al seguito che ha: talvolta tra i giornalisti propensi al gossip e alle fake news, talvolta presso qualche magistrato dallo scarso zelo e dall’abbondante ansia di carriera, talvolta in qualche parlamentare spregiudicato disposto a qualunque cosa pur di racimolare voti. Fortunatamente, si può dire che solo una parte marginale dello Stato abbia disprezzato la Costituzione della Repubblica istituendo una «polizia religiosa» SAS (la «Squadra Anti-Sette» del Ministero dell’Interno), e che però, in linea di massima, sino ad oggi l’influenza reale esercitata dagli ideologi antireligiosi sia paragonabile a quella di un peto in mezzo a un fortunale.

In definitiva, c’è davvero da augurarsi che i responsabili di AIVS facciano un serio esame di coscienza a proposito di questo caso di tentato omicidio.

domenica 15 aprile 2018

I risultati della psicosi «anti-sette»: ecco un piccolo esempio

Da tempo stiamo denunciando (e, un po’ alla volta, documentando) da questo blog la «manipolazione mentale» messa in atto dagli «anti-sette» ai danni della popolazione del nostro paese.

Sfortunatamente, tale propaganda è all’opera anche altrove e, in verità, in tutta Europa e ben oltre; probabilmente, è un fenomeno che esiste in tutto l’orbe terracqueo.

Ci siamo imbattuti in alcuni articoli pubblicati nei giorni scorsi su Internet che riferiscono di un curioso caso avvenuto in Scozia: a nostro parere, si tratta di una dimostrazione lampante, grottesca e per certi versi inquietante di quali reazioni può produrre il battage mediatico «anti-sette» e l’utilizzo stesso del vocabolo «setta» per ghettizzare chiunque porti avanti delle idee non convenzionali (ne parlavamo in un recente post).


È capitato la scorsa settimana in Scozia che una compagnia di amici amanti della musica hard rock e delle atmosfere mistiche ed appartate sono stati «sorpresi» mentre erano in gita fuori città, riuniti attorno a un fuoco a raccontare storie di fantasmi ascoltando le loro canzoni preferite presso un piccolo isolotto lacustre del Lago di Loch Leven, a nord di Edimburgo, a poco più di un’ora di strada dai luoghi che hanno dato i natali a un’icona del rock di metà anni ’80 come Derek Dick, in arte «Fish».

Che delitto!

Sono stati «ricercati» per una sera da una squadra di soccorso (sic!) della polizia la quale, dopo aver dispiegato un contingente di «una ventina di veicoli» fra forze dell’ordine e di emergenza (addirittura!) e dopo aver fracassato i finestrini delle auto dei ragazzi «alla ricerca di indizi», li ha raggiunti sull’isolotto.


Motivo di tanto subbuglio: la polizia era mossa dalla preoccupazione che potesse trattarsi di un ipotetico «culto suicida».

Logico lo sgomento della piccola compagnia, guidata da un musicista che di lavoro fa l’insegnante di scuola, tale David Henderson, di cui riportiamo la breve testimonianza come la si desume dai media:


Assieme a Henderson vi erano alcuni amici, tre bambini e un cane: insomma, la classica rimpatriata, con la differenza di una collocazione e un orario singolari.

Ci domandiamo cosa sarebbe successo se a fare da «consulente» dei poliziotti scozzesi vi fosse stato un prete cattolico «anti-sette» come don Aldo Buonaiuto: probabilmente si sarebbe gridato allo scandalo e ai rivoltanti crimini perpetrati dalla «setta occulta» di Henderson nei confronti di innocenti bambini, e addirittura animali! Chissà come si sarebbe scatenata la fantasia morbosa nel solco della più torbida propaganda «anti-sette».

Fortunatamente, in quel piccolo paesino del Nord Europa non vi erano estremisti «anti-sette» e così quelle persone non hanno dovuto subire una sorte tragica come quella degli inesistenti «Angeli di Sodoma».

Ciò nonostante, non si può mancare di osservare come la psicosi rispetto ai presunti «culti distruttivi» (che qui in Italia viene alimentata costantemente, quasi giornalmente) abbia comunque prodotto danni non solo rovinando a una mezza dozzina di persone una scampagnata fra amici (senza contare i finestrini in frantumi), ma anche e soprattutto mettendo in allarme un’intera comunità per un pericolo inesistente.

sabato 10 febbraio 2018

Gli «anti-sette», Michelle Hunziker e la “Doppia Minestra Perfetta”

Abbiamo già trattato in un precedente post la questione riguardante il presunto idolo televisivo Michelle Hunziker, scrittrice di un libro edito da Mondadori sulla sua «triste storia» (anche se, veramente, dalle foto dell’epoca non pare fosse così triste) vissuta all'interno di un cosiddetto «gruppo settario», di cui non ha volutamente fornito dati identificativi.

Si è trattato di una strana strategia mediatica, gettare il sasso senza voler dire a chi è destinato? Che temesse ripercussioni legali?

Comunque la campagna per la promozione del libro si è accompagnata alla campagna di marketing allarmistica ripresa dai soliti faccendieri «anti-sette» a tamburo battente:



Dopodiché la soubrette viene selezionata per presentare la 68ma edizione del Festival di San Remo, che in realtà è diventato di fatto il suo palcoscenico privato: infatti, Michelle Hunziker non ha perso occasione per promuovere il marchio e gli affari di famiglia, come pure le sue (molto ipotetiche) attività sociali.

Infatti, i social media italiani hanno dato ampia eco a una serie di comportamenti discutibili della disinvolta conduttrice, che sono anche stati ripresi da alcune testate online.


La più accesa tra le critiche viene da Raffaella Palladino presidente di D.i.Re., la rete che raccoglie ottanta centri italiani che si adoperano per difendere le donne dalla violenza. In una dura lettera inviata direttamente al Presidente della Rai, Monica Maggioni, pone in evidenza come San Remo sia stato strumentalizzato per fare propaganda all’associazione Doppia Difesa presieduta dalla Hunziker e Giulia Bongiorno, candidata con la Lega Nord di Matteo Salvini.

Non solo Doppia Difesa viene descritta come un’associazione di fatto inesistente, che raccoglie donazioni senza operare in alcun modo a difesa delle donne, ma si accusa la Hunziker di strumentalizzare la sofferenza di altre donne unicamente allo scopo di farsi pubblicità. Sostanzialmente la stessa cosa che ha fatto e sta tuttora facendo con la sua strumentalizzazione dell’allarmismo «anti-sette» per mettersi in mostra ai danni delle minoranze religiose e di chi subisce i soprusi di qualche facinoroso.

Il Fatto Quotidiano sottolinea anche che una giornalista della stessa testata, Selvaggia Lucarelli, aveva pubblicato un articolo segnalando come i telefoni di Doppia Difesa, la ONLUS presieduta dalla Hunziker «erano perennemente muti, mentre le email restavano senza risposta», allegando peraltro i messaggi ricevuti da parecchie donne che si erano rivolte invano all’associazione. Qui sotto alcuni messaggi a titolo di esempio.




Notiamo con stupore e un certo interesse che la madre di Michelle, Ineke Hunziker, fa parte dello staff di questa associazione.

Comunque, l’unica risposta di fatto ricevuta è stata una querela per diffamazione dopo che l’articolo-denuncia era stato pubblicato, mentre i telefoni di Doppia Difesa ritornavano improvvisamente e magicamente a funzionare.

Una finzione sulla finzione che ben si addice allo stile della Hunziker e che trova nella RAI una cassa di risonanza visto che la direzione dell’emittente di stato ha lasciato correre sull’iniziativa (alquanto discutibile) della soubrette svizzera di distribuire ai conduttori una spilla della propria associazione da esibire proprio durante il Festival.

«A noi sembra un malcelato e fintamente ingenuo tentativo non solo di sostenere la campagna elettorale di Bongiorno, ma anche di far dimenticare le critiche piovute sull’associazione Doppia Difesa», scrive Raffaela Palladino nella propria lettera alla direzione RAI.

Manuela Ulivi, Presidente della «Casa di Accoglienza delle donne maltrattate di Milano», parla di «antiviolenza spettacolo». In un suo post pubblicato su Facebook dichiara:

«Non so cosa faccia l’associazione di Hunziker e Bongiorno. Noi nella stessa città, Milano, abbiamo aperto da trent’anni il nostro centro, un’associazione di donne che ha costruito centinaia di percorsi di uscita dalla violenza, ospitando in case segrete le donne in pericolo».

E prosegue specificando di non aver mai incontrato né Michelle Hunziker né l’avvocata Bongiorno: «Ma le vediamo parlare di violenza contro le donne in televisione. Tutti corrono a dire che sono contro la violenza, in tanti anni di relazioni pubbliche e interventi a seminari, incontri, convegni, non ho mai trovato uno che dicesse di essere a favore. Ecco, la differenza è sempre tra il dire e il fare».

Perciò la finzione di Michelle e la sua sfacciata strumentalizzazione del Festival sia per fare pubblicità al marchio commerciale del marito sia per tirare l’acqua al mulino delle sue alleanze politiche non è sfuggita agli osservatori attenti. In particolare è stata notata e denunciata da chi lavora davvero e tutti i giorni per tutelare le donne vittime della violenza.

Ci domandiamo, in tutto ciò, dove siano finiti i propugnatori della campagna di marketing «anti-sette» che avevano promosso le attività della loro paladina Michelle Hunziker: da parte loro non un commento, non uno striminzito post di critica e denuncia di un siffatto, inammissibile sfruttamento della buona fede popolare.

Come mai hanno tralasciato di stigmatizzare questo episodio che, da quanto si evince, mette in luce gente che non si fa scrupoli a cavalcare le sofferenze altrui?

È un interrogativo a cui tenteremo di dare risposta...

sabato 3 febbraio 2018

Toni Occhiello, AIVS e la pseudo-informazione a senso unico

Una breve riflessione su un caso alquanto eclatante di come gli «anti-sette» fanno «informazione».

Per la verità, si tratta di un triste, tristissimo esempio della loro pseudo-informazione a senso unico e del modo in cui veicolano odio e allarmismo senza fornire un quadro completo delle vicende che descrivono.

Ecco un post pubblicato la settimana scorsa da Toni Occhiello, principale esponente di AIVS:


In questo post, Occhiello fornisce una propria personale versione della tragedia che ha colpito Sonia Rinaldi, una fedele della Soka Gakkai deceduta per malattia. Inutile dire che il resoconto fatto da Occhiello di una vicenda tanto infelice, oltre a non portare alcun rispetto per i familiari della defunta né il benché minimo riguardo per il loro immenso dolore, come se non bastasse muove delle accuse piuttosto gravi nei confronti delle persone che le sono state vicino nel suo ultimo periodo di vita.

Accuse, come sempre, tutte da provare, tanto più che il post stesso (a leggerlo bene) non dimostra assolutamente nulla che possa far trarre delle ragionevoli conclusioni di una presunta «colpevolezza» della Soka Gakkai nel caso di specie. Al contrario, vi sarebbero persone molto ben informate sulla vicenda di Sonia Rinaldi (per averla vissuta e non per sentito dire) che potrebbero fornire ulteriori elementi a completamento di quel quadro.

Ma Occhiello non sembra affatto interessato a conoscere l’intera storia, a lui è sufficiente poter «collegare» una malattia terminale alla religione seguita da chi purtroppo ne è caduto vittima. Il che equivarrebbe ad accusare il Vaticano per le migliaia e migliaia di casi di cattolici deceduti per tumore che scelgono di non affidarsi a trattamenti tradizionali e scelgono terapie alternative.

Per motivi tecnici non siamo stati in grado di catturarne un’istantanea, ma sappiamo per certo che almeno due persone (ne forniremo le sole iniziali: M.B. e M.V.) avevano commentato quel post manifestando la propria contrarietà allo sfruttamento tanto cinico, impietoso e inumano di una notizia così tragica. Ma quei commenti sono stati censurati, perché scritti da persone che hanno purtroppo vissuto situazioni molto simili a quella oggetto del post: i loro contributi, ancorché veritieri, sarebbero stati sicuramente «scomodi» perché avrebbero contraddetto la propaganda di Occhiello.

Sfruttare e strumentalizzare le disgrazie altrui: è questa la «opera di informazione» svolta dagli «anti-sette»?

mercoledì 3 gennaio 2018

Calunniatori, istigatori di odio e bugiardi: ecco gli «anti-sette»

Nel gergo di Internet si chiamerebbero «troll», vocabolo con cui s’intende «chi interviene all'interno di una comunità virtuale in modo provocatorio, offensivo o insensato, al solo scopo di disturbare le normali interazioni tra gli utenti».

Eccone un esempio:


Il rispetto della dignità altrui, il comportamento civile, il puro e semplice senso di responsabilità rispetto all’utilizzo di un mass media quale oramai è Internet: nulla di tutto ciò sembra far parte del bagaglio culturale di Toni Occhiello.

Al contrario, il criterio sembra essere «più cattiveria possibile, nella maniera più ad effetto possibile». Infatti, ecco un altro esempio di come cerca di strumentalizzare un tragico fatto di cronaca per attaccare la Soka Gakkai, una religione che conta centinaia di migliaia di fedeli in tutto il mondo: prende la notizia di un suicidio, riferita dalla stampa, per affermare (in maniera del tutto opinabile, se non propriamente calunniosa) che sarebbe «colpa» del movimento se la signora si è tolta la vita. Come se la quasi totalità dei suicidi, statistiche alla mano, non avvenisse fra persone battezzate (ossia la stragrande maggioranza degli italiani) e come se si volesse stabilire una fantasiosa relazione tra la quantità di messe e cerimonie cristiane frequentate da quelle persone nel periodo precedente al fattaccio.

Tutt’altro: Occhiello, con le solite parole molto pesanti e giudizi molto categorici, imputa la disgrazia al gruppo religioso di cui si riferisce che la signora faceva parte; poi, non contento, rincara la dose con ulteriori offese (più adatte a una bettola che ad altri contesti) e improperi.


Discorso simile per quest’altro post:


Ancora: se il tal seguace è deceduto, deve «certamente» essere «colpa» del movimento (anzi, il «culto distruttivo») del quale faceva parte, e per giustificare tale ipotesi accampa una fantasiosa, maliziosa teoria tutta da dimostrare:


Naturalmente, il prevedibile risultato dell’allarmismo di Occhiello si nota bene dal commento successivo: paura e rigetto del «diverso», specie se quel «diverso» è dipinto come un «mostro».

Passino le opinioni personali e persino le dietrologie (la libertà di parola è un diritto sacrosanto sancito dalla nostra Costituzione), ma le parole adoperate da Occhiello sono davvero forti e pronunciate con astio: questi post schiumano rabbia e sembrano scritti per terrorizzare e intimidire.

Ma oltre che volgare e calunnioso, il comportamento di Toni Occhiello sembra anche essere truffaldino: infatti, notiamo che è reticente a proposito della sua data di nascita.

Mentre in nessuno dei suoi scritti pubblicamente disponibili (inclusa la sua pagina Facebook personale) Occhiello sembra voler indicare il proprio anno di nascita, qui addirittura si legge che la sua classe è il 1962:


Eppure la vera data di nascita di Toni Occhiello è il 20 Novembre del 1951, come si evince da documenti ufficiali che lo riguardano e che si riferiscono alle sue passate (e fallimentari) attività cinematografiche:


Cosa si nasconde dietro a questo grottesco mistero?

Tanto per voler essere pignoli, abbiamo voluto sottoporre a verifica anche un’altra informazione spacciata dallo stesso Toni Occhiello: quella relativa alla sua qualifica presso la DGA, Directors Guild of America, una sorta di Albo dei Registi del paese a stelle e strisce. Ecco cosa Occhiello dichiara pubblicamente in proposito dal suo profilo Facebook:


Peccato che, almeno utilizzando lo strumento pubblico di ricerca messo a disposizione dalla DGA, di Occhiello non vi sia traccia (anche utilizzando le differenti possibili declinazioni del suo nome di battesimo). Se questa nostra superficiale verifica ha omesso qualche passaggio di cui potremmo non essere a conoscenza, siamo certi che l’interessato ce lo comunicherà ai fini di un’adeguata smentita.

Ma fino ad allora, di fronte a simili incongruenze e tanto beceri comportamenti, non possiamo che rinnovare il nostro inquietante interrogativo: quanto sono attendibili gli «anti-sette» come Toni Occhiello e i suoi stretti collaboratori quali Lorita Tinelli, Sonia Ghinelli, Maurizio Alessandrini, ecc.?

lunedì 23 ottobre 2017

L’allarmismo forzato: procurato allarme?

L’operato dei gruppi «anti-sette», descritto nelle pagine di questo blog e denunciato da diversi altri siti e associazioni, può essere analizzato con un occhio critico che vada oltre il battage mediatico e le asserzioni scandalistiche. In tal caso, esso può essere interpretato come una sorta di inganno che sta venendo portato avanti da anni e anni tramite una campagna propagandistica che è purtroppo falsa nei suoi principi e intesa a creare uno stato sociale sufficientemente turbolento per poter introdurre una legislazione ad hoc o una repressione di diritti prima ritenuti indiscutibili.

Le persone, in generale o per la maggior parte, sono portate per natura a tutelare i diritti altrui o comunque a rispettarli come tali a meno che non siano stimolate a fare altrimenti. Pertanto, l’unico strumento individuato dai “gruppi anti-sette” per annichilire scelte individuali e religiosità da loro considerate «cattive» o «distruttive», è l’intervento dello stato, propiziato con dati statistici quanto meno discutibili e sicuramente insufficienti a giustificarne l’interpretazione allarmistica offerta alla stampa e nei convegni.

Va ricordato che la discriminazione religiosa e l’istigazione all’odio sono già sanzionati dalla Legge 205/93 “Misure urgenti in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa” con la reclusione fino a 4 anni. Tuttavia, vi sarebbe un’altra fattispecie penale che sembra essere ben integrata dai fatti esposti finora.



- Codice Penale -
Articolo 658 Procurato allarme presso l’Autorità
Chiunque, annunziando disastri, infortuni o pericoli inesistenti,
suscita allarme presso l’Autorità, o presso enti o persone che esercitano
un pubblico servizio (c.p.358) è punito con l’arresto fino a sei mesi o con
l’ammenda da lire 20.000 a 1 milione (c.p.340, 656, 657).


Le prove esaminate e in parte rese pubbliche in questo blog sembrano mostrare che si stia «procurando allarme» simulando o inferendo un’emergenza che non esiste; a farlo sarebbe un gruppo organizzato, che si potrebbe dunque (in tal caso) considerare un’associazione per delinquere, con l’aggravante del coinvolgimento di  pubblici ufficiali ed enti della Repubblica.

Volendo essere a dir poco eufemistici, le cifre e le statistiche che dovrebbero sostanziare il presunto “allarme sette” – così tanto sbandierato e propagandato in decine di convegni e in centinaia di articoli stampa e trasmissioni TV e radio – non sono per nulla coerenti.

Queste statistiche sono fornite dagli stessi gruppi «anti-sette» appositamente per sobillare forze pubbliche e private contro dei movimenti ritenuti «pericolosi», senza che però tale presunta «pericolosità» possa essere realmente dimostrata. Al contrario, la «pericolosità» da loro portata a dimostrazione delle proprie teorie, risulta essere del tutto marginale.

Non è quindi fuori luogo supporre che una simile condotta (di per sé moralmente disdicevole) possa integrare il reato penale di procurato allarme; inoltre, in tal caso essa si svolgerebbe per mezzo di una vera e propria associazione per delinquere, finalizzata all’indebita repressione di diritti umani fondamentali e universalmente riconosciuti quali la libertà di associazione, la libertà di pensiero e – in particolare – la libertà di culto.

Addirittura, in taluni casi sono proprio i presunti esperti «anti-sette» ad affermare inequivocabilmente, non senza una certa sfacciataggine, che occorre creare allarmismo. Ecco un esempio con le parole di Giuseppe Bisetto del GRIS di Treviso:




Come se non bastasse, nonostante la pochezza dei dati statistici cui fanno riferimento, i gruppi «anti-sette» sollecitano un intervento da parte dello Stato che comporta spese di pubblico denaro.

Con tutti i problemi che già ci sono nel nostro paese, è davvero necessario che uomini e risorse della Repubblica vengano dedicate all'istituzione (e all'inevitabile mantenimento) di forze speciali come la controversa «Squadra Anti-Sette» per risolvere «piaghe» che in realtà non esistono, se non in percentuali estremamente esigue o addirittura relativamente inesistenti?